Con a fianco il sole

Siamo a fine ottobre e tra soli due giorni avremo un’ora in meno di luce la sera.
Il cielo è sereno, finalmente dopo giorni di pioggia, e anche se l’autunno è arrivato da tempo, ancora è docile nella sua temperatura. Le foglie rosseggiano sugli alberi, ma il clima è ancora ospitale per arrampicare fino a sera.

Il pomeriggio libero ci fa scegliere una via corta, sulla roccia già asciutta della parete centrale del Monte Cengio. Sopra di noi il cielo è azzurro, chiazzato da solitarie nuvole bianche, accompagnate dai fumi di vapore che escono dalle valli sotto di noi. Non c’è pittore che possa ricreare questo spettacolo naturale alla luce di un sole che si sta preparando al suo tramonto.

Il primo tiro di trentacinque metri corre lungo la parete su placca e in parallelo alla via Prima: un susseguirsi di tacche e piccoli appoggi impone al corpo di muoversi sinuosamente, per quanto possibile, e seguire le proprie sensazioni, un equilibrio instabile che tiene con il fiato sospeso anche gli spiriti liberi che osano, pur non essendo all’apice della scala sociale degli arrampicatori.

Ma che importa? Che importa del grado quando ogni fibra dei muscoli segue l’istinto e stacca la corrente che alimenta il pensiero? Salgo fino ad arrivare a un breve diedro: all’inizio, però, rimontare al suo imbocco diventa complesso, perché le mani devono affidarsi a prese piatte, aleatorie e limitanti, e i piedi si trovano lontani tra loro a dover sopportare uno spostamento lievemente all’indietro su appoggi bassi, dove solo le punte delle scarpette trovano soddisfazione.
Il punto è superato, ma non il diedro, che ancora disapprova il passaggio fino ad arrendersi all’azione.

La sosta è a sinistra e qui attendo il mio compagno che, arrivato, subito parte per la variante americana: non una Route 66, ma comunque un viaggio da sogno risistemato qualche anno fa da Mario Schiro. 
L’itinerario è caratterizzato da tre diedri e la parte più divertente è all’inizio, dove è necessario superare uno strapiombo, lasciando il piccolo tetto alla propria destra.

Arrivati entrambi alla seconda sosta, ci soffermiamo a guardare il sole, che sta per toccare la cima delle montagne di fianco a noi. Velato dalle vaporose nuvole bianche che salgono, la palla dorata esplode in una luce fioca ancora più calda.

Parto per uno dei tiri in placca più belli della parete: su una linea di 40 metri i buchi si alternano a tacche, che si fanno più nette nella parte finale.
La difficoltà è nella resistenza: qui non si trova riposo, o almeno mai completamente.

Sulla cima ogni fascia del cielo che tocca terra o le montagne si colora di arancio e di rosa, come i profili di quelle nuvole solitarie che ora incorniciano il quadro della sera.
Dalla bastionata orientale del Cengio sbuca la luna piena che, nonostante il cielo non sia ancora buio, si fa notare con un sorprendente contrasto.

Con la corda in spalla ci soffermiamo a guardarla, prima di lasciare la roccia della via L’uomo torcia e i tre porcellini (aperta da Pietro e Milco Meneghini, Mauro Genero e Mario Schiro il primo novembre del 2001), augurandoci di ritrovarla al più presto.

Arrampicare ci fa scoprire capacità e limiti, ma anche una parte di noi che, con più o meno consapevolezza, nascondiamo durante la nostra quotidianità ed esprimiamo quando capita, magari davanti al tramonto o alla luna prima che un caffè si freddi: una qualunque occasione che vale l’essere al mondo.


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