Ma le donne che avranno fatto a questi arrampicatori? Ammaliati, affascinati, arrabbiati, innamorati, vinti da un desiderio irrefrenabile di salire attraverso il percorso più scomodo per raggiungere la parte più alta e urlare al mondo che, se ce l’hanno fatta, è anche per loro. Sì, ho sintetizzato e romanzato la storia dei nomi di queste due vie, Umberta e Barabara: non so chi siano queste donne e non so quali correlazioni ci siano con gli apritori, ma sono certa che per una dedica così ne sia valsa sempre la pena.
Torniamo a noi.
È fine marzo, da poco è arrivata la primavera e una via ad Arco ci sta per fare una (brevissima) pausa dalle Piccole Dolomiti. Come sempre per me, se una via presenta un dettaglio particolare, come la sua storicità, mi dà una maggiore soddisfazione. Sfoglio le vie sul Colodri e San Paolo e la lettura si sofferma su un nome, la via Barbara, che ho già sentito nominare perché attraversa le famose vie DDT di Marampon e Zanzara e Labbradoro di Manolo e Bassi sul famoso pilastro Zanzara del Colodri. Ce ne sono altre che voglio provare a salire in zona, ma quella è un’altra storia. Scelgo la via Barbara e la propongo a Michele, che non attende molto ad accettare.

Questa via, in realtà, inizia dalla grande cengia a circa metà del pilastro e vive su cinque lunghezze. Per arrivarci si percorrono solitamente i cinque tiri della via Umberta Bertamini, la prima chiodata sul pilastro, aperta da Ugo e Mario Ischia, Emanuelli e Calzà l’8 novembre del 1972.
“Nello stesso anno Ugo e Mario Ischia ripeterono l’itinerario e raggiunta la grande cengia continuarono per cinque lunghezze di corda seguendo un bellissimo diedro rossastro e dando vita a quella che oggi è la via Barbara.” [fonte: Sassbaloss].

Si parte!
Arriviamo all’attacco in meno di 10 minuti dopo aver parcheggiato lungo la strada.

Procediamo e la roccia si presenta abbastanza unta soprattutto nel secondo tiro, dove un passaggio su un breve strapiombo ci fa riflettere per qualche minuto su come posizionare i piedi senza scivolare. Ma attenzione: voglio sottolineare che sì, la roccia è lisciata dalle moltissime ripetizioni in oltre 50 anni, ma l’itinerario vale davvero la pena!
La difficoltà della via è V+, VI, ma la sua anima alpinistica con davvero poche protezioni la si potrebbe percepire un po’ più difficile, soprattutto in alcuni punti, dove cadere trattenuti solo da uno o due friend non è rassicurante.
Saliamo su diedri e fessure, brevi placche e strapiombi: un’arrampicata spesso atletica, delicata in alcuni punti (negli ultimi tiri è bene essere cauti perché alcuni tratti presentano roccette instabili ed è facile far cadere sassi).










Sulle soste ci godiamo il panorama, reso ancora più nitido da una bella giornata di sole. Guardi dall’alto gli uccelli che volano, le ali aperte e le piume scure che brillano al sole: non è da tutti questa prospettiva, giusto?

Divertente anche la rampa appoggiata del quarto tiro, protetta da qualche spit e dove incontro la via DDT con la sua sosta su tre chiodi a pressione. Gli appoggi per i piedi sono rari, quindi la salgo in spalmo, con attenzione, ma agevolmente.

Arrivo alla sosta e osservo la fila di rari spit della via Zanzara e Labbradoro che salgono in verticale. Ma noi dobbiamo traversare a destra: sospiro di sollievo.

Quando arriviamo al sesto tiro della via, l’inizio della via Barbara, qualche nuvola che copre il sole scurisce la roccia rossastra dell’imponente diedro. Tocca a me e se prima ne ero ammaliata, ora ne sono intimorita. Ci provo e tutto fila liscio: insomma, arrivo alla sosta con qualche difficoltà, incastrando spesso braccia e gambe nell’enorme fessura del diedro per cercare un po’ di riposo, ma che avventura sarebbe senza un po’ di brivido? Ammetto che non è stato così semplice, a metà del sesto tiro, quando un brevissimo traverso verso destra mi porta a dover posizionare un firend per poter arrivare allo spit circa sei o sette metri sopra di me. La roccia è fantastica qui, ma comunque le tante ripetizioni iniziano a lisciarla e l’incastro nella fessura mi permette di riposare e attendere l’energia che arriva da qualche metro sotto più lenta di me.

Michele è nell’ottavo tiro e sosta all’interno di un camino: quando arrivo la scena è molto divertente: mi appare un puntino all’interno di una fessura verticale gigante che prosegue a stringersi verso la parte interna del monte.


Nel nono tiro fatico nel passaggio di sesto sulla paretina a sinistra della sosta, ma poi proseguo tranquilla fino alla sosta comoda sullo sperone. Anche qui trovo un ambiente quasi dolomitico: è certamente solo una mia percezione, ma se tralascio il panorama sottostante e mi concentro tra la roccia e il cielo, mi sembra di essere a chilometri da terra.
L’ultimo facile tiro prosegue fino all’uscita con una sosta su piante.

Che dire? Ce la siamo cavata anche questa volta e la soddisfazione è impagabile.

Scendiamo e ci va di allungare il percorso passando per il centro di Arco: si torna alla civiltà dopo qualche ora in un ambiente solitario, dove il silenzio della roccia domina il resto dei rumori, che diventano solo un sottofondo lontano.
Osservare il Colodri con la luce del tramonto ha un fascino irresistibile e, nonostante la stanchezza, rimani lì, con la testa sollevata e gli occhi fissi alle sue pareti striate, solcate dalle fessure e scavate dai diedri.


Essere soli con sé stessi, per minuti che talvolta sembrano ore, è un ottimo esercizio per ritrovarsi, avere la percezione totale del nostro corpo immerso in una natura che non fa sconti, ma incide sulla pelle e sulla mente il nostro appartenere al mondo.
[Qui la relazione della via fatta da sassbaloss.it. Mi permetto di aggiungere un dettaglio al sesto tiro: a metà di questo, all’altezza del secondo friend incastrato, si traversa leggermente a destra per continuare il diedro. Allungare benissimo la protezione per evitare attriti con la corda.]
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