Il primo luglio 1° luglio 1939 nacque la società degli Scoiattoli di Cortina, un periodo in cui aumentavano le guide, chi in montagna ci andava anche per lavoro. Ma di gente che in montagna saliva per pura passione ce n’era ancora parecchia e gli Scoiattoli ne sono stati un’esempio: “il desiderio di andare in montagna non solo per mestiere comincia a cogliere inesorabilmente sempre più alpinisti, spingendoli come un’onda verso nuovi orizzonti e difficoltà. Le Dolomiti sono in quel periodo teatro continuo di grandi imprese e ambita meta di forti arrampicatori ed è in questo contesto che i dieci giovanissimi fondatori del Gruppo Scoiattoli mettono le basi per una storia che dura ormai da più di sette decenni”. (Fonte: sito Scoiattoli di Cortina)
Questi giovani (‘boces’) sono Albino Boni Alverà, Silvio Boricio Alverà, Luigi Bibi Ghedina, Romano Nano Apollonio, Angelo Alo Bernardi, Ettore Vecio Costantini, Siro Casuto Dandrea, Giuseppe Tomasc’ Ghedina, Bortolo Bortolin Pompanin e Mario Zesta Zardini.

Ugo Pompanin nacque nel 1926 ed entrò negli Scoiattoli di Cortina che era ancora adolescente.

Tra i fondatori del Soccorso Alpino di Cortina nel 1939, Pompanin è stato anche presidente delle Regole d’Ampezzo e nel 1990 guida del Parco Naturale della Dolomiti d’Ampezzo.
In un’intervista al Notiziario di Cortina disse
“avevamo un’attrezzatura totalmente diversa: corde di canapa con il difetto che quando si bagnavano o prendevano umidità, diventavano dure, non passavano più per i chiodi. Avevamo scarpe del tutto particolari: erano come le pantofole alla cadorina; mia madre aveva tagliato la suola e con dello spago l’aveva cucita al tessuto di juta. Quando arrampicavamo avevamo la sensazione di avere sotto il sapone e si scivolava di brutto. Salivamo sulla roccia aiutandoci moltissimo con le braccia, quando invece dovevamo usare le gambe. I ragazzi oggi fanno tanta palestra e si allenano molto di più di quello che eravamo soliti fare noi. Anche i chiodi erano diversi, oggi usano quelli a espansione, sono più sicuri e sono difficili da estrarre. I nostri erano tutt’altro. Nel 1947 o nel 1948 feci la prima ripetizione della via Cassin con il famoso alpinista vicentino Gino Duilio Soldà. Ci alternavamo nella salita. Nell’ultima cordata, più difficile, Soldà mi chiese: ‘adesso Ugo come facciamo a salire?’. Gli domandai ‘perché?’ e lui mi rispose ‘perché non hai tolto nessun chiodo, non ho sentito nemmeno un colpo di martello’. Io, che li avevo tolti tutti con le mani, indicandoli, gli comunicai: ‘questi sono i tuoi e quelli i miei, ne abbiamo abbastanza per compiere gli ultimi 50 metri’. Non ha più parlato, anche perché se lui volava, saremo andati giù entrambi. I giovani sicuramente e per fortuna sono più sicuri, ma noi non andavamo ad arrampicare per ammazzarci. Dopo la guerra parlando tedesco e francese conobbi tanti alpinisti dell’Europa dell’est, l’80% di loro è morto, quelli del nostro gruppo sono quasi tutti tornati a casa, ad eccezione di Albino Michielli ‘Strobel’, che scomparve nel 1964, precipitando da un facile passaggio della Torre Falzarego. Erano mesi che aveva male a un braccio.”
Albino Boni Alverà è stato un grande sciatore alpino, nel 1951 campione italiano di slalom e slalom gigante. Partecipò alle Olimpiadi invernali di St. Moritz del 1948, ai Campionati mondiali di Aspen del 1950 e ad altre competizioni.

Aveva 16 quando fondò insieme agli altri gli Scoiattoli di Cortina. Per oltre 50 anni fu guida alpina.
In un’intervista disse: “a parte le enormi differenze per quanto riguarda la disponibilità del materiale, c’era qualcosa nel nostro alpinismo che assomiglia al free-climbing di oggi più di quanto non assomigliasse, ad esempio, all’alpinismo degli anni 50-60”. [Fonte: montagna.tv]
Questi due alpinisti salirono il 4 agosto del 1946 il primo Spigolo della Tofana di Rozes, conosciuto come via Alverà-Pompanin. Pochi giorni dopo scalarono anche il Terzo Spigolo.
Divenuto ormai una classica della zona, questo itinerario è una splendida opera d’arte, con difficoltà e uno sviluppo contenuti, ma divertente da salire, con una roccia splendida (tranne qualche tratto nella seconda parte, dove è bene fare attenzione a non muovere sassi).
La visione appena arriviamo al parcheggio è spettacolare.

Noi partiamo verso le 9.40 dal Rifugio Dibona e percorriamo tranquilli il sentiero di avvicinamento in falso piano che ci porta in 40-45 minuti all’attacco della via.
Nella prima parte la via si svolge in un bellissimo diedro, che poi lascia spazio alla salita sullo spigolo vero e proprio con alcuni affascinanti tratti esposti. La linea è logica, evita gli strapiombi, è chiodata poco, ma la sua logicità permette agli scalatori di trovare sempre la strada.
La maggior parte delle soste è a spit. La via finisce sul camino terminale, dove un piccolo gendarme segnala l’arrivo e davanti l’ultima sosta a spit.

Sul tragitto di ritorno abbiamo attraversato tre piccole lingue di neve, dove è necessario fare molta attenzione a non scivolare. La cengia esposta è breve (sono presenti dei fittoni per chi eventualmente voglia assicurarsi, dato che il dirupo mette un po’ di angoscia) e successivamente arriviamo a un’area caratterizzata da diversi massi, che nascondono, poco più avanti, il rifugio Giussani. Il comodo sentiero di ritorno è verso destra in discesa, tra quel che resta dei ruderi della Prima Guerra Mondiale.
Durante la salita la parete gialla verticalissima del secondo spigolo si erge di fianco a me e, come sempre mi capita con i muri dolomitici, osservarla per qualche secondo mi fa perdere l’orientamento: è un’illusione ottica che mi cattura e per un brevissimo lasso di tempo scarico il mio corpo dalla realtà che mi tiene ancorata alla vita quotidiana, respiro, mi guardo attorno, e respiro ancora, inebriandomi del profumo della libertà.
È un altro punto di vista, sono sensazioni diverse da quelle che si provano tutti i giorni, sono finalmente in grado di capire che sì, tutto è possibile.
Nel sito RAMPEGONI Saverio D’Eredità scrive
“non si tratta di salite di grido, inferiori per difficoltà ad altre maggiori realizzazioni degli stessi Scoiattoli di quegli anni. Ma sono questi i simboli di un alpinismo intramontabile, classico nel senso più autentico, che difficilmente potrà risentire dell’usura del tempo. Qui non è la ricerca della difficoltà o del problema l’essenza della scalata, quanto piuttosto la bellezza architettonica della montagna stessa.
[…]
Pur simili, i suoi spigoli non risultano ripetitivi. Il primo spicca per il profilo affilato e tagliente, il secondo definisce il contorno del grande pilastro, il terzo si inarca e si distende come il dorso di un animale addormentato. Ognuna di queste salite mi ha lasciato un ricordo profondo, una soddisfazione che va oltre il grado, la sfida, il singolo passaggio o l’impegno. Forse più un senso di pace ed armonia.”
Ottima la relazione dei SassBaloss: https://www.sassbaloss.com/pagine/uscite/tofana/tofana.htm
La via parte da quota 2083 metri e finisce a circa 2700 metri.
Le difficoltà variano dal IV al V+.
Sviluppo: circa 400 metri
Esposizione sud.
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