Perché andare a cacciarsi nei guai quando già la vita, di guai, te ne mette di fronte parecchi? È una domanda che mi ripeto spesso. Il che significa che questo mi succede con frequenza. E quindi confermo che le cose facili non mi attraggono poi così tanto. Ma continuare a voler poggiare il dito sulla brace, prima o poi ci si scotta…
Quindi procedo con l’intenzione di stare attenta, prevenire incidenti, rispettare gli insegnamenti dati dall’esperienza, ascoltare la ragione, essere meno irrazionale… sì, ma che noia!
Dato che il mio momento non è ancora arrivato, posso sempre stare vicino alla brace tenendomi le dita in tasca. O almeno ci provo.
[Se sei un’istruttore CAI, non proseguire con la lettura. Esci immediatamente dalla pagina.]
Siamo sulla parete sud del Piz Ciavazes, sono le 9 e intravediamo ancora qualche colata nera dovuta alla pioggia della notte. Ma il sole picchia e il vento è senza inibizioni, si mostra in tutta la sua virilità. Partiamo verso le 10 e come sempre la direzione è in alto.
Ah, dimenticavo, abbiamo scelto la via Micheluzzi, un itinerario storico, quelli che piacciono a me, questo con protezioni abbastanza sufficienti e stavolta con il sollievo di soste ben attrezzate su fittoni resinati. La via è stata aperta da Luigi Micheluzzi e Ettore Castiglioni il 26 settembre 1935.
Non vedo l’ora di arrivare al traverso di cui tutti parlano: una linea verso destra che taglia per 90 metri la parete.
Inizialmente la salita scorre liscia, senza imprevisti: la parete si mostra con la sua splendida roccia e i chiodatori hanno realizzato una via che passa nei tratti di parete dove le prese sembrano scavate da quanto sono perfette per dita e mani.







Tutto fila liscio. Fino a un diedro. Al breve diedro che dovrebbe vedersi abbastanza bene per arrivare alla sosta sopra un pulpito. E dato che a me piace complicarmi la vita… Dopo un breve traverso arrivo a un bel diedrino fessurato formato da una conformazione di roccia che sporge creando anche un bello spigolo esposto. Saranno forse 6 o 7 metri, un cordino su chiodo si trova proprio sotto: percorro in verticale un breve tratto di placca e mi infilo su questo diedro-spigolo. Convinta di trovare almeno un chiodo. Ma no. Quindi provo a proteggermi con un friend, dato che il cordino ormai mi è sotto i piedi di qualche metro. Tiene? Una caduta assolutamente no. Come si dice? Psicologico? E vabbè, piuttosto di niente.
Proseguo e la difficoltà non è certo di V. Il friend ormai è sotto i miei piedi di un metro o due, sono in spaccata con le mani vicine alla fessura improteggibile, nulla da fare, cambio, inverto la posizione, mani lontane, una in parete e l’altra sullo spigolo, e i piedi tentano di salire su effimeri appoggi nel diedro. No, non ancora. Riprendo l’appiglio all’interno del diedro, un piede lo allontano a destra e l’altro lo lascio dov’è, penso ‘se cado, sbatto sulla cengia e chi si è visto si è visto’, mi chiedo ‘perché devo sempre complicarmi la vita in qualsiasi occasione?’, mi rispondo con la classica risposta di chi sbaglia: ‘tutta esperienza’. Al diavolo anche l’esperienza. Tengo l’appiglio con la mano destra e cerco tra gli svasi sullo spigolo la superficie che più mi convince. Sostituisco i piedi e alzo il sinistro fuori dallo spigolo. ‘Io speriamo che me la cavo’. Sono fuori, su un maledetto pulpito che poteva essere quello della sosta, ma non lo è, perché il diedro giusto, molto più semplice, è tre metri dopo quel maledetto cordino. Inutile prendersela: mi assicuro a un chiodo e a un friend abbandonato (qualcun altro ha cercato di complicarsi la vita, che sollievo!) e mi sposto alla sosta giusta, qualche metro e qualche preghiera più in là.
Ma il resto della via, 11 tiri su 12, è stata uno spasso ed è andato tutto alla perfezione. Anche il traverso, del quale non abbiamo riconosciuto le difficoltà inserite nella relazione (ci è sembrato più semplice), forse anche per il maggior numero di protezioni. Si sa, il fattore psicologico si insinua nel giudizio dei gradi. Anche dove una gradazione non ce l’hai perché il tiro non è in relazione…





Torniamo alla via: un’ascensione divertente, una roccia meravigliosa (alcuni appoggi e appigli sono un po’ consumati, è vero, ma non creano alcun fastidio).
Nella relazione dei Sassbaloss è riportato un pensiero di Castiglioni, chiodatore con Micheluzzi:
“Il Piz Ciavazes non è stato per niente mio: mi son semplicemente prestato ad accompagnare Micheluzzi in una salita cui lui teneva molto, ma io niente, e l’ho seguito non passivamente, ma senza metterci nulla di mio, quasi come un compito che mi era del tutto indifferente. Un sesto grado sprecato. E poi con Micheluzzi non potrei mai trovare quell’affiatamento della cordata, che è condizione essenziale per godere e vivere un’ascensione”.
Nei rapporti con la guida alpina Micheluzzi non mi intrometto, però sul resto del pensiero non sono d’accordo. Anche se lo rispetto. Ma non mi è mai stato molto molto simpatico Castiglioni, soprattutto quando gli è stato dato il merito di una via aperta da Vinatzer, anche se poi ha ammesso l’immensa bravura del grande e timido alpinista. Ma sono questioni di lana caprina.
Sono felice di aver salito questa via che non avevo preso in considerazione e su cui per fortuna mi sono imbattuta durante la ricerca di una linea su una parete soleggiata.
Certo, salire un molto apprezzato itinerario senza costruirsi la propria piccola scena del brivido poteva essere evitato. No, mai. Ma per fortuna le soste hanno i fittoni resinati…




Ma chi era Luigi Micheluzzi?
Gian Piero Motti lo definisce ‘eroe sconosciuto’: guida alpina di Canazei, questo alpinista esercitava in Val di Fassa, con qualche deviazione verso Cortina e le Dolomiti della Val Gardena.
Conosciuto anche per la sua via sul Piz Ciavazes, aperta con Ettore Castiglioni e di cui abbiamo parlato sopra, Luigi Micheluzzi rientra nella cerchia dei protagonisti della Marmolada con l’impresa compiuta con Roberto Perathoner e Demetrio Christomannos nel 1929 lungo il Pilastro sul della Marmolada di Penia. Pare, a detta di tutti i ripetitori del periodi, che fosse una via con difficoltà superiori a quelle di tutte le altre vie aperte precedentemente. Anzi, nettamente superiori.
Nel libro Storia dell’alpinismo di Motti si legge
“Il pilastro è alto circa 600 metri ed è di roccia compatta e molto levigata. Nella parte alta la via segue un gigantesco camino sbarrato da blocchi, che il più delle volte è intasato di ghiaccio ed ha costretto parecchie cordate al ritorno. La prima salita richiese trenta ore d’arrampicata e un bivacco in parete, ma nonostante il livello decisamente superiore delle difficoltà superate, furono impiegati solo sei chiodi! Micheluzzi, schivo e modesto, non disse nulla della sua salita e nemmeno forse era conscio di aver superato difficoltà di quel genere.”
In seguito fu Walter Stösser a ripetere la via, ma credette di essere in apertura, in quanto non trovò materiale lasciato dagli italiani. Non ci si può sorprendere se poi il tutto finì in una polemica, fomentata dal fatto che ai ripetitori parve impossibile che qualcuno potesse essere passato lungo quella linea con un numero così esiguo. Negli anni a seguire infatti furono piantati almeno cinquanta chiodi.
Per fortuna la verità uscì dalla polemica e Micheluzzi ottenne il sudato merito. Secondo Messner questa via vale quanto la Soldà e la Vinatzer, aperte successivamente e date di VI grado superiore.
Ma non è tutto: con questa via Micheluzzi superò il livello raggiunto da Solleder.
“La confusa relazione che Micheluzzi invia all’Annuario della SAT nel 1930 non rende per nulla ragione del valore della salita, per il semplice fatto che la giovane guida di Canazei era di umile cultura valligiana e non era assolutamente al corrente di tutta la complessa problematica sviluppatasi intorno ai limiti delle difficoltà in arrampicata. Nella chiusura della relazione si legge semplicemente: «La salita è difficilissima, presenta ostacoli che non possono essere superati che dalla cooperazione di al meno due esperti alpinisti».” Enrico Camanni

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