L’ultimo del Nuovo Mattino nella Valle dell’Orco

È un nuovo mattino: il sole rosseggia, ma ancora non si fa vedere, è al di là dell’orizzonte. 

La macchina sfreccia lungo l’autostrada, si lascia alle spalle le Dolomiti, a sinistra scorre il Po e a destra la catena montuosa delle Alpi cambia faccia.

Non volta verso Torino, ma prosegue la sua strada verso una valle ricca di storia che guarda al Gran Paradiso senza nulla invidiare al suo spettacolo.

Finalmente ci sono: ho raggiunto i luoghi di cui tanto ho letto, gli spazi incantati e selvaggi di alpinisti che qui in Valle dell’Orco hanno cambiato il modo di vedere l’alpinismo e l’arrampicata. Sono zone in cui le pareti e non le vette sono protagoniste di una storia che è finita, ma non smette di vivere, nei libri e nell’anima di chi ancora ci crede.

E soprattutto nelle mani e nella memoria di uno tra gli ultimi arrampicatori che in questa Valle ancora scala le sue rocce e apre nuove vie, un ragazzino che conobbe il Nuovo Mattino e i suoi protagonisti, e che ancora oggi, ormai adulto, racconta aneddoti e storie con ironia e intensità, con un sorriso che comunica l’entusiasmo di un tempo, quando si arrampicava in scarponi e scarpe da ginnastica, quando non c’erano friend, quando per proteggersi bastava il coraggio. Ma è un sorriso che nasconde anche una parte di tristezza, per quelli che non ci sono più, per un passato che non torna e che è stato barattato con il turismo di massa e una nuova galleria dove le auto vanno e vengono sotto il Caporal.

Andrea Giorda, io e Claudio Battezzati

Lui è Andrea Giorda, probabilmente uno degli ultimi del Nuovo Mattino che ancora arrampica qui. Finalmente lo conosco di persona! Lo incontriamo nella sua casa di Noasca insieme a uno dei più fidati compagni di cordata e di chiodatura, e amici. Claudio Battezzati è direttore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, CAI di Torino.

Con loro, appena tornati dal lavoro di apertura di una linea (vicina alla nuova via G.G.) sopra lo spettacolare lago Serrù, abbiamo assaggiato alcuni affettati e formaggi tipici, oltre all’immancabile birra. Dal balcone della casa di Andrea si vede nitidamente la parete del Caporal.

Andrea Giorda è anche la mia guida nella mia brevissima gita nella Valle dell’Orco ai piedi del Sergent e del Caporal.

Per arrivarci ci incamminiamo lungo la strada, ora asfaltata, che costeggia il torrente Orco tra pareti non immense, ma selvagge e talvolta repulsive, solcate dalle famose fessure. La natura, nella sua creazione, ha scelto per loro il granito. 

Come i molti arrampicatori che frequentano la Valle, ci fermiamo alla fessura Kosterlitz, non tanto per provarla (non riesco nemmeno a partire), ma per entrare nel vivo di questo mondo. Questa fessura possiamo dire che è un buon banco di prova per chi viene ad arrampicare qui la prima volta.

Parcheggiamo poco più avanti di fronte al camping e all’inizio della stradina, ora solo ciclabile, sulla sinistra Andrea mi porta ai piedi della Fissure du Panetton che Patrick Edlinger ha superato in libera nel 1982.

Noto subito, all’interno della fessura, delle macchioline di sangue, segno di una fatica ripetuta negli anni.

Patrick Edlinger supera in libera la Fissure du Panetton, Valle dell’Orco, 11 giugno 1982 [Fonte: gognablog]

Dalla parte opposta altre pareti in ombra ci mostrano la via del Totem Bianco della Parete del Disertore, il cui famoso tetto è stato salito in libera da Patrick Edlinger nello stesso anno, il 1982.

Valle dell’Orco (parco Gran Paradiso), Patrick Edlinger sul passo del tetto della via del Totem Bianco alla Parete del Disertore, 10.6.1982 [Fonte: Gognablog]

Vista anche la Fissure du Panetton dal basso e inchinandomi alla bravura dei grandi alpinisti del passato, proseguo con Andrea e il mio amico Giovanni (che ringrazio per la pazienza) verso il Caporal.

Andrea Giorda mi sottolinea spesso quanto piccolo possa sembrare da lontano, ma quanto immenso possa essere visto da vicino, da sotto. Non serve, me lo immagino. Ma lui vuole che me ne renda conto davvero, vuole darmi la prova concreta, e allora mi porta su, proprio ai piedi di questa parete granitica, all’attacco di alcune vie tra cui Tempi Moderni e Itaca nel sole.

Inoltrarmi in alcuni dei luoghi vissuti da Motti, Grassi, Manera, Bonelli e molti altri è un piccolo sogno che si realizza. Farlo con una guida d’eccezione, con Nuovo Mattino, come lo ha battezzato scherzosamente Rolando Larcher… be’, non potevo chiedere di meglio.

In questi due giorni il tempo ovviamente vola: in paese dicono che qui queste alte temperature non si erano mai registrate, ma due escursioni non possono mancare. La prima è sul Colle Sià.

La camminata in falso piano e salita, per un po’ nel bosco e poi sotto il sole, dura circa due ore e mezza. Percorriamo l’evidente sentiero, passiamo tra le baite diroccate e in alto si ergono delle alture che sembrano costruite da blocchi di pietra. Sopra il colle facciamo una sosta, ci guardiamo intorno e penso, come sempre, a chi è stato qui prima di me e ne ha scritto un articolo.

“Prima di cominciare ad arrampicare ho imparato ad amare la natura, mi sono innamorato della montagna in tutti i suoi aspetti, dal prato di fondovalle, alla grangia nei pascoli, al colle tra le rocce. Per anni ho macinato chilometri su e giù per sentieri e mulattiere, per creste e valloni. Le montagne, quelle alte, quelle difficili, le guardavo dal basso, con grande rispetto e anche con tanto timore. Le ho desiderate, mi ci sono avvicinato a poco a poco. Ma la foresta, la fontana, l’odore della grangia, le tracce degli animali sulla neve, il rustico ponte, non li ho dimenticati.

[…] nel periodo che va da maggio all’inizio di giugno, è possibile incontrare numerosi branchi di stambecchi e anche di camosci risalendo da Ceresole Reale il vallone che conduce al Colle Sià (2274 metri), posto sulla cresta discendente dal Courmaon e comunicante con il vallone del Roc. La gita al Colle Sia è quanto mai raccomandabile: si svolge su un’ottima mulattiera ben segnata e con lievi pendenze. È quindi effettuabile anche da una famiglia con bambini piccoli, non abituati a lunghe camminate. Esiste la possibilità di fermarsi a metà percorso in un magnifico pianoro, ricco di sorgenti e di fontane, per consumare la colazione.

Il lago di Ceresole Reale

Dalla frazione Prese di Ceresole si segue la carrozzabile per circa dieci minuti (a piedi) e dopo due strette svolte si imbocca a destra, nei pressi di due villette, una mulattiera segnata con il minio, che sale in un magnifico bosco di larici con percorso a metà costa. La mulattiera è riconoscibile per l’indicazione “Bivacco Ettore e Margherita Giraudo” posta all’inizio, nei pressi della carrozzabile. Si sale nel bosco con marcia comoda e piacevole; già nella parte bassa del lariceto è facile incontrare, a inizio di stagione, branchi isolati di stambecchi.
La fitta foresta che si attraversa è costituita essenzialmente da larici, l’albero resinoso più diffuso delle montagne piemontesi, sulle cui pendici si inerpica fino a quote molto elevate, al livello degli alti pascoli e delle pietraie. Con il pino montano e l’abete rosso, o peccio forma delle foreste caratteristiche per le diverse chiazze di colore, variabili dal verde brillante al verde scurissimo e cupo nelle zone in cui predomina il peccio.
Il sottobosco del lariceto è occupato da rododendri, sempre verdi e riconoscibili per i bellissimi fiori rosa. Non mancano numerose piantine di mirtilli, ricche a stagione avanzata delle gustosissime bacche violacee. Si esce quindi dal lariceto per sfociare in un largo pianoro di prati e di pascoli, punteggiato qua e là dagli ultimi larici, posto veramente incantevole, disseminato di gruppi di grange, con ampia vista sulle cime della Valle dell’Orco. All’inizio della primavera alpina, quando si disciolgono le nevi, è possibile ammirare estese e splendide fioriture di crochi, alcuni dei quali vengono fuori forando il sottile strato di neve in scioglimento componendo quadretti di delicata bellezza. In seguito spunteranno primule e anemoni e più tardi i non-ti-scordar, o miosotidi, con i loro cerulei fiorellini. Nel vasto pianoro sicuramente si incontrano moltissimi stambecchi, discesi dalle quote più alte, ancora fortemente innevate, in cerca di erba e di arbusti. Il pianoro, dove sgorgano ottime fontane, è raggiungibile in un’ora di marcia da Ceresole.
La mulattiera prosegue con comodo tracciato e, sempre ottimamente segnata, sale per pascoli più ripidi verso altri gruppi di grange. Piegando a sinistra e seguendo un sentiero meno marcato, si giunge in un valloncello pietroso e selvaggio, dove sovente è facile incontrare i camosci.
Ci si avvicina così alla zona occupata da grandi pietraie, le ruvide morene silicee dove abbondano le sassifraghe di ogni specie e dove è possibile ammirare i meravigliosi e caratteristici cuscinetti della Silene acaulis, verdissimi e punteggiati di graziosi fiorellini.
La zona, selvaggia e tutta sassi, viene a poco a poco occupata da vegetazioni di piante pioniere che iniziano la colonizzazione graduale di questi ambienti ancora poco ospitali per la vita vegetale.
Continuando per la mulattiera principale, dopo aver rasentato due piccoli e graziosi laghetti, si raggiunge in breve una larga depressione erbosa, il Colle Sià. In tutto poco più di due ore di marcia da Ceresole.
Dal colle si gode di un’ampia e magnifica veduta sul gruppo del Ciarforon, della Tresenta, della Becca di Monciair e sul vicinissimo Courmaon che si presenta con un affilatissimo spigolo verticale, al centro di una imponente parete triangolare rossastra e compatta. […]”
Gian Piero Motti per la Rivista della montagna, giugno 1970.

La seconda escursione l’abbiamo vissuta al Colle del Nivolet*, uno dei cuori del Parco del Gran Paradiso, di cui vediamo le vette immersi nei prati tra meravigliosi laghetti. 

Il fischio delle marmotte mi fa capire che c’è vita oltre la sopravvivenza di tutti i giorni. Si fa largo un sorriso e tutto il resto sembra scomparire.

È già ora di tornare. Scendiamo la strada lungo i tornanti tempestati di pietre, erba e fiori. Ci fermiamo nuovamente a Noasca, per rivedere la cascata con i suoi 32 metri di salto, e salutare Andrea e la moglie.

Con me porto una massima che piace molto ad Andrea e che mi ha riferito: 

“da vecchi si è convinti di sapere tutte le risposte, ma ti cambiano le domande”.

Non smettiamo mai di imparare, dunque: mi sembra un ottimo motivo per continuare a vivere!

Riprendiamo la strada verso casa. Arriviamo con il cielo che rosseggia, questa volta per un tramonto dietro le Piccole Dolomiti. Ed è subito una nuova sera.

Valle dell’Orco e Colle del Nivolet

*“[…] All’occhio del turista la Valle dell’Orco si presenta selvaggia, dirupata, con un non so che di antico e di ottocentesco. Forse è il ricordo delle case di caccia reali, forse il ricordo di strane figure di cercatori d’oro che setacciavano meticolosamente le acque dell’Orco, l’eva d’or, alla ricerca di qualche pagliuzza lucente, forse il ricordo dei magnin, gli stagnini rinomati e conosciuti in tutto il Piemonte.

Profonda, incassata, offre sempre paesaggi decisamente occidentali, severi e grandiosi, quadri e vedute dove predominano le linee geometriche dure e spezzate, i contorni ruvidi e aspri: caratteristiche comuni, d’altronde, anche alla gente. Ma è soprattutto inoltrandosi nei lunghissimi e meravigliosi valloni secondari che si scopre l’anima della montagna piemontese, il paesaggio forse un po’ triste e melanconico, ma altamente suggestivo, delle nostre montagne.

Già prima di giungere a Ceresole non mancano motivi di interesse. Uscendo dall’abitato di Noasca è bene fermarsi a osservare l’ultimo imponente salto della Cascata di Noaschetta, alta 32 metri e suddivisa in sei salti. Dalla carrozzabile in pochi minuti si raggiunge un sentierino un po’ scivoloso che permette di passare in una curiosa cavità della rupe dietro l’acqua che precipita.

La strada prosegue verso Ceresole e si innalza con una prima serie di fitte e ripide serpentine. Quindi passa sotto una caratteristica volta formata da due immensi macigni, in un ambiente estremamente aspro e grandioso: tutto attorno è un caotico ammasso di blocchi di ruvido gneiss, dalle forme spigolose e ardite, mentre più in alto la valle è rinserrata tra pareti giallastre levigatissime, segno evidente dell’azione assai potente dell’antico ghiacciaio. La strada entra nella gola cupa e selvaggia; e si innalza con stretti e ripidi tornanti a sinistra del torrente che, chiuso tra enormi blocchi di roccia, rimbalza con una serie di imponenti cascate. Percorsa una strettissima galleria, la strada passa tra massi enormi e quindi, con meravigliosa vista sul gruppo delle Levanne e sul lunghissimo canalone di neve e di ghiaccio scendente dal Colle Perduto, si adagia nel grande bacino di Ceresole Reale, contornato da fitte foreste di larici e di pini lambite dal grande lago artificiale che occupa gran parte del bacino.

Alla conservazione di questo habitat pressoché unico ha contribuito in massima parte l’organizzazione del Parco nazionale del Gran Paradiso. Sotto la stretta e attenta sorveglianza dei guardaparco, hanno potuto così svilupparsi nel loro ambiente più congeniale una flora e una fauna tali da essere degne di una considerazione, di una visita, di un rispetto e di uno studio ben più ampi di quelli di cui godono ora.

Osservare da vicino branchi di camosci e di stambecchi, partecipare dei loro giochi sulla neve, delle loro battaglie amorose, delle loro esercitazioni sui brevi salti di roccia, seguire le lunghe scivolate sul ghiaccio delle buffe marmotte, vedere con quanta cura le madri dei camosci e degli stambecchi insegnano ai piccoli ad arrampicarsi sulle rocce e nei canali di neve, aiutandoli e sospingendoli con le corna: sono tutti spettacoli indimenticabili in cui si perde completamente la nozione del tempo.

La recente costruzione della bellissima strada che conduce al Colle del Nivolet permette di penetrare nel parco per un buon tratto. Tuttavia la zona del Nivolet è ai margini del parco e gli animali, sovente spaventati dal clacson delle macchine e dal frastuono dei turisti che non sempre rispettano le più comuni norme di civiltà, rifuggono un po’ la zona e si rifugiano nei settori più interni. Comunque, soprattutto all’inizio della primavera alpina – in maggio, quando la neve rende ancora impraticabile la parte alta della strada – e di giorno feriale, quindi con uno scarso o quasi nullo movimento automobilistico, è possibile imbattersi in branchi di stambecchi che pascolano ai margini della carrozzabile, sovente poche centinaia di metri a monte del gruppo di grange detto Chiapili di sopra. L’importante è non fare alcun rumore, scendere dall’auto con calma e con calma ancora maggiore avvicinarsi al branco degli animali. Se questi si accorgono della vostra presenza e vi fissano, è necessario rimanere immobili e non fare alcun gesto improvviso che possa spaventarli. In caso contrario spariranno in un attimo dalla vista, rifugiandosi in qualche zona più alta. Invece, ricorrendo a qualche accorgimento e con molta pazienza, si può giungere quasi in mezzo al branco e ritrarre in fotografia alcuni esemplari molto da vicino. Naturalmente si rende utile un teleobiettivo, che facilita enormemente le riprese da lontano.

Se gli stambecchi si abitueranno alla presenza dell’uomo nel loro branco, sarà possibile restare anche alcune ore a vedere come si svolge la vita di questi straordinari animali e godere di uno spettacolo indimenticabile.

[…]

Ricordo infine di rispettare rigorosamente il regolamento del parco, soprattutto per non arrecare danno al patrimonio naturale e per non disturbare gli animali. Tra l’altro, è assolutamente proibito introdurre cani nel territorio del Gran Paradiso.

Gian Piero Motti per la Rivista della montagna, giugno 1970.


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