“Andiamo a fare la Messner!”
Quando il mio compagno di cordata per la prima volta non mi ha fatto scegliere la via, non ho azzardato una discussione. Ho risposto subito “ok”, senza tentennare. Forse l’ho fatto solo nella mia mente, perché sia Messner sia le sue vie mi incutono un po’ di timore. Sono vie che esigono rispetto, per un cognome, il suo e quello del fratello, che ha fatto storia e che insieme a pochi altri è impossibile mettere in discussione.
Famoso per le sue salite in libera e per il suo parsimoniosissimo utilizzo di chiodi, Messner ha tracciato una linea sulla parete nord della Seconda Torre del Sella che oggi tutti conoscono. L’ha fatto nell’agosto del 1968. La via è diventata una classica, come si è soliti dire. Ma anche una via un po’ temuta, non per il grado (fino al VI-), ma perché è facile perdersi: i chiodi sono pochissimi, al contrario delle vie vicine, che sono parecchie e possono portare fuori strada.
Ho detto ‘ok’, ora si va. Mi è già successo una volta, qualche tempo fa, di rinunciare perché non mi sentivo abbastanza sicura, ma stavolta ne sono convinta.
Avevamo intravisto la linea quando abbiamo salito la Vinatzer alla Terza Torre ed è subito stato amore: quelle placche verticali che da lontano sembrano lisce, quel calcare grigio compatto che non vede il sole… tutto sembra promettere bene.
Dal Passo ci incamminiamo lungo il bel sentiero segnato e una leggera salita sul ghiaione ci conduce all’attacco, che si distingue dagli altri perché si trova circa a metà parete ed è evidente una fessura su una macchia di roccia gialla.
















Il primo tiro è una lunga curva verso destra. Sulla roccia grigia a pochi metri il mio compagno di cordata predilige la fessura di destra (che probabilmente è un VI) e io lo seguo, ma già capiamo che quella giusta di V grado è la fessura parallela di sinistra a circa due metri di distanza. Non importa: arriviamo alla sosta e procediamo.
Subito capiamo che la roccia è spettacolare: compatta, ricca di buchi che sembrano scavati. E la verticalità rende tutto più divertente.
Dalla prima sosta arriviamo in traverso verso destra a una nicchia gialla, dove a una clessidra sono annodati dei cordini con maglia rapida per una calata e da qui obliquiamo verso sinistra continuando la via in verticale fino a un vecchio cordino e poi alla sosta, che è all’interno di una nicchia gialla, a destra e più in basso di un’altra (con altra sosta). Da qui si supera la nicchia verso sinistra per poi tornare a destra e seguire la linea verticale che porta a una clessidra di sosta.
Un altro tiro di VI- ci fa proseguire verso destra e poi su, lungo una fessura fino alla sosta.
Il tiro successivo, il quinto, è bellissimo, molto logico perché sale dritto fino alla sosta alla base di un diedro. Questi buchi sono davvero ottime prese!
Il facile diedro lo percorriamo per 30 metri senza protezioni fino alla sosta e poi saliamo una fessura e un’altra placca che ci portano ad attrezzare la sosta sette.
Infine un breve tiro di venti metri e III grado ci porta all’arrivo della via normale. Dato il buon orario, ci concediamo un altro tiro corto fino alla vetta, dove indossiamo le scarpe, ci crogioliamo al sole e poi giù, con una calata fino alla normale, che percorriamo a ritroso con diversi tratti in arrampicata (wow, non è ancora finita!). Decidiamo di non utilizzare la corda, quindi allo stesso tempo decido che non devo volare. Non ho altro da dire.

Però per la prima volta mi diverto anche in discesa.


Il sole lo abbiamo visto solo alla fine della via, ma la temperatura è stata clemente e le maniche lunghe con un gilet imbottito sono stati sufficienti.
Una riflessione? Sì, sulla paura.
La paura di non trovare la strada, paura di accorgermi di aver sbagliato linea quando vari metri sotto di me mi allontanano da un chiodo o da un cordino su clessidra, paura di dover ripercorrere all’indietro la strada di salita (Preuss alzerebbe gli occhi al cielo). La paura di non farcela e di combinare un bel casino.
Mi capita spesso, in via, di avere paura. Di sbagliare e di cadere. Ma so anche che senza non potrei fare quello che faccio, seppur nel mio piccolo, ovviamente.
Quello che mi insegna la scalata, però, (e anche il mio compagno di cordata!) è che la paura non deve sopraffarmi. “Entrare nel panico ti blocca e allora non vai più né su né giù: questo è pericoloso. Quando ti sale la paura, devi pensare solo a proseguire, cercare il facile e non imbarcarti nel difficile, immaginare dove un alpinista con gli scarponi potrebbe essere salito, credere in te”.
Oh no, non sto dicendo che è facile, soprattutto quando ti trovi a decine o centinaia di metri da terra e il possibile volo è di 10, 15, 20, 30 metri. Ma pensaci: che alternative avremmo?
In fin dei conti pensiamo romanticamente che l’alpinismo ci abbia scelto, ma in realtà, lo sai bene, siamo noi ad averlo fatto.
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