Ma chi te lo fa fare?
Me lo chiedo spesso, ad esempio quando la sveglia suona alle 4 o quando l’aria gelida mi entra sotto la maglietta, oppure quando sento il cuore accelerare all’impazzata e le gocce di sudore scendono sulle tempie durante un avvicinamento, o quando il tuo compagno di cordata sta per affrontare un passo difficile su roccia dubbia con una debole protezione qualche metro sotto i piedi e io mi trovo in una sosta attrezzata su due vecchi chiodi.
Chi me lo fa fare?
Arriviamo al parcheggio alle 8 della mattina, il cielo è limpido ma il sole ancora non si fa vedere, tutto è in ombra. L’aria ghiacciata a 0°C penetra fino alle ossa e la brina copre i prati verdi.
Parto prima del mio compagno di cordata: so che non impiegherà molto tempo a raggiungermi.
Mi incammino lungo il sentiero che ci conduce al Rifugio Bruto Carestiato. Il respiro si fa più intenso e l’aria fredda arriva lentamente ai polmoni, accarezza la pelle del viso e le lacrime agli occhi non si fanno attendere. Ma mi consola non siano di tristezza.
Incontro due cacciatori con i loro cani e poi nessuno. Una manciata di minuti dopo la cordata si riforma: siamo gli unici davanti alla Moiazza.
La Pala delle Masenade ci attende: l’obiettivo di oggi è la via Soldà-Kraus, aperta dai due alpinisti nell’agosto del 1959.
Per arrivare all’attacco dal Carestiato impieghiamo una mezzoretta (sembrava così vicino dal rifugio!): costeggiamo la parete e risaliamo il ghiaione tra i massi e la roccia levigata, in salita, sotto il sole che inizia a scaldare.

Parto io e in alternata saliamo una via con pochissime protezioni, alcune soste da attrezzare e un grado che a leggerlo tranquillizza, ma che a decine e centinaia di metri, con solo qualche chiodo, non appare più così semplice.
Non è facile trovare l’itinerario: ci sono chiodi, cordini e soste fuori via, ma la parete e la relazione fungono da ottima bussola per il nostro orientamento.

Quando arrivo al quinto tiro di VI-, che implica l’aggirare un tetto, ringrazio per la presenza di qualche chiodo ravvicinato e lentamente avanzo. Vorrei azzerare, sarebbe possibile, ma le parole del mio compagno di cordata (una delle funzioni primarie è proprio questa) mi aiutano a provare la libera ed è andata. Gli altri due tiri, di VI- e di VI, toccano a lui a causa della divisione in due di un tiro per evitare troppo attrito alla corda.
Il nono tiro di VI sostenuto sta mettendo a dura prova non sono Paolo, ma anche me, che in una sosta a chiodi mantengo fisso lo sguardo sul mio compagno di cordata, che troppe volte riposa le braccia mettendo le mani nel sacchetto della magnesite. È un segno: vuol dire che sta riflettendo sul da farsi e che non è un passo facile. Vuoi vedere che è una variante parallela al nono tiro reale e che il grado è più elevato? (Sì, molto probabilmente è la variante Arban di VII)
Ormai è lì e non tornerà indietro. Anche se sotto di lui ha diversi metri e una piccola cengia, un solo chiodo e un friend. Con il suo peso, se cade, è possibile tolga il chiodo, figuriamoci il friend e forse la mia sosta. Esagerata? Può darsi, ma in questo momento non sono nelle condizioni di essere molto positiva.
È andata, passato in libera. Tocca a me. Chiedo se la sosta è buona e Paolo conferma. Con due rest e un po’ di aiuto con la corda per scaricare il peso, passo anche io. VI sostenuto? Alla faccia del ‘sostenuto’! La sosta? Sempre due vecchi chiodi.















Giunti all’uscita scegliamo di percorrere la ferrata Costantini per il ritorno. La lunga discesa ci ha stancato braccia e schiena più della via, ma un’esperienza in più non fa mai troppo male.


Con i piedi sul sentiero rivolgo un ultimo sguardo alle pareti illuminate dal sole: la giornata sta finendo, il tramonto è vicino, le ombre si fanno più fitte, ma la luce che sta evidenziando le linee della roccia ha un fascino tanto imponente che penso ‘ecco cosa me lo fare’.
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Un po’ di storia.
Ritroviamo Gino Soldà, con Carlesso, Cassin e molti altri, sulla strada dell’artificiale iniziata da Emilio Comici. Ma non generalizziamo: per questi grandi alpinisti l’arrampicata libera rimaneva comunque un pilastro, anche se i mezzi artificiali diventavano per loro necessari a superare le linee individuate, che iniziavano sempre più a verticalizzarsi ed erano affrontate senza dover cercare vie di fuga o aggiramenti per poter superare passi che non riuscivano in libera. Una libera che, è bene ripeterlo, giocava sempre un ruolo essenziale nelle loro salite, spinta anche ai limiti della caduta.
Nel caso di questa e altre vie di Soldà (come quella più facile alla torre di Babele nel gruppo del Civetta) si nota però la ricerca dell’alpinista dei punti un po’ più facili della parete, soprattutto osservando i vari traversi, di cui alcuni su cenge. Non semplice è però evitare le difficoltà in una parete come questa, caratterizzata da una omogenea verticalità.
“Gino Soldà (1907-1989), che seppe portare ad un gradino ancora più elevato il livello tecnico raggiunto da Cassin.
Soldà, nato a Valdagno nel 1907, è una delle figure più umane e simpatiche dell’alpinismo italiano, un uomo che è veramente vissuto per la montagna, ricavandone tra l’altro ben poche soddisfazioni dal punto di vista econo-mico. Come Carlesso anche Soldà si è formato sulle guglie delle Piccole Dolomiti vicentine, dove ha aperto qualche via che ancora oggi i giovani definiscono come « allucinante». Soldà è un uomo delle Dolomiti, dove vi ha anche svolto l’attività come guida e come maestro di sci.”
Storia dell’alpinismo, Gian Piero Motti.
Una curiosità.
Per Massarotto è implicita la negazione del chiodo a espansione, ma la sua etica va oltre: «Per il mio alpinismo uso metodi pionieristici, cioè mi rifaccio al sistema secondo il quale uomini come Rebitsch, Vinatzer, Soldà, Carlesso e Cassin affrontavano le grandi pareti. Loro non avevano dadi, friend e ricetrasmittenti. E quando io dico che in una mia via ho usato soltanto quattro chiodi, non intendo dire che ho usato quattro chiodi, dieci dadi e tre stopper. Intendo dire che ho usato quattro chiodi e basta» (La Rivista del CAI, 1985). Questi, secondo l’alpinista veneto, sono gli unici presupposti per l’evoluzione e ancora una volta puristi e «artificialisti » dissentono sul concetto di progresso in alpinismo.
Storia dell’alpinismo, Gian Piero Motti.
Pierangelo Verri ha realizzato la prima solitaria invernale.

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