C’era una volta Tita Piaz, il diavolo delle Dolomiti

C’era una volta un uomo dai capelli scompigliati e dagli occhi pieni di fuoco, che si chiamava Tita Piaz. Tita non nasce italiano, ma austriaco, e solo dopo la grande guerra, quando il vento cambiò i confini, diventò italiano. 

Fin da ragazzo Tita amava le montagne più di ogni altra cosa. Le guardava come fossero gigantesche giostre: con le vette aguzze, i pilastri di roccia e i passaggi stretti dove solo lui, con la sua fantasia, sapeva infilarsi. Era un montanaro intelligente e curioso: leggeva libri, ascoltava le notizie del suo tempo e parlava con tutti, anche con le marmotte, se ce n’era qualcuna a guardarlo!

Chi incontrava Tita capiva subito che non era una guida alpina qualunque. Così, i signori che lo pagavano non si sentirono mai servi, ma compagni di avventura. Le sue vie sulle montagne erano semplicemente ‘vie Piaz’, come se la roccia portasse già il suo nome.

Una volta, per far capire ai suoi clienti come abbassarsi in sicurezza, li fece uscire da una finestra del rifugio e scendere con la corda doppia. Immagina di scendere su uno scivolo da brivido del luna park, ma lungo una parete di 100 metri! E tutti, con il cuore in gola, pensavano: ‘sto scendendo come Tarzan!’.

Un altro giorno Tita portò un prete in cima al Catinaccio: appena arrivati, le nuvole si misero a fare una gara di velocità e il cielo cominciò a tuonare. Il sacerdote tremava: “signor Piaz, la prego…”, e Tita, con la sua voce roca, disse: “se vuoi che scendiamo sani e salvi, raccomanda l’anima non a Dio, ma a Tita Piaz!”. Il povero prete lo guardò sconvolto e rimase lassù indeciso per un quarto d’ora finché non promise di affidarsi totalmente a Tita. Poi scesero, stretti alla corda e all’avventura.

Le donne della Val di Fassa, quando lo incontravano per strada, si facevano il segno della croce: lui era un po’ selvaggio e un po’ santo, ma sicuramente un personaggio da rispettare. Era il ‘ diavolo delle Dolomiti!’.  Anche i gendarmi lo guardavano con attenzione, come fanno i maestri con gli scolari più intraprendenti: dicevano che Tita aveva conosciuto le galere di ben tre regimi, cioè era stato ‘in punizione’ più volte per la sua natura ribelle.

Tita non si accontentava di portare i clienti su sentieri già tracciati: amava inventarsi vie nuove, come se giocasse a un videogioco con tanti livelli. Nel 1900 salì da solo la parete nord-est della Punta Emma, un muro di roccia tutto di quarto grado (pensa al quarto livello di un videogioco: non si scherza!). Qualcuno fece una scalata simile e tutti la celebrarono, ma Tita, con la sua modestia, non disse una parola.

Nel 1911 volle percorrere lo spigolo sud-ovest della Torre Delago insieme a due amici, Irma e Jori: era una linea affilata come una lama, ma lui la affrontò con il sorriso. E non finisce qui: si spinse oltre, sul Campanile d’Oro, superando il quinto grado, quasi ai limiti dell’arrampicata libera, quella senza troppi chiodi, come se fosse un equilibrista su una corda tesa in aria.

C’era poi la Guglia de Amicis, una torricella di roccia dove Tita s’inventò un volo sospeso: lanciò corde da una punta all’altra, tese come un filo di ragnatela, e attraversò l’aria come un equilibrista del circo. I puristi, sbalorditi, lo criticarono, ma lui rise, perché per lui la montagna era un palcoscenico da colorare con l’audacia.

Arrampicò fino a cinquant’anni, affinandosi anche a chiodi e moschettoni, quegli attrezzi che i primi alpinisti austriaci avevano portato con sé. Qualcuno, come Hans Steger, lo accusava di usare troppo il martello e i chiodi, ma Tita rispondeva: “ogni tecnica ha il suo momento!”. E continuava per la sua via.

Purtroppo, il suo viaggio tra le montagne finì con un incidente in bicicletta senza freni: cadde e se ne andò. Ma la sua leggenda restò sulle pareti delle Dolomiti e nel cuore di chi ama l’avventura.