C’era una volta un ragazzo che si chiamava Celso Gilberti. Celso era un arrampicatore: amava salire sulle montagne con le mani e i piedi, come se stesse giocando a rincorrere il cielo.

Dopo che un altro grande scalatore, Comici, aveva fatto una salita molto famosa sulla Cima Grande di Lavaredo, molti alpinisti cominciarono a usare nuovi attrezzi e tecniche per aiutarsi sulle pareti ripide. Alcuni di questi alpinisti si chiamavano Carlesso, Soldà e Cassin. Loro, prima di tutto, sapevano scalare da soli senza aiuti, ma usarono anche i nuovi strumenti quando serviva, e così poterono compiere imprese ancora più difficili. Questo era un modo nuovo di fare le cose, che aveva cominciato Comici e, ancora prima, Dülfer.
Però non tutti volevano usare quegli aiuti. C’erano persone come Alvise Andrich e Celso Gilberti che preferivano la scalata “pura”: usavano i chiodi solo per proteggersi nel caso di caduta, e quasi mai come punto d’appoggio per tirarsi su. Celso era originario di Rovereto, ma per studiare visse a Milano e lì conobbe altri amici arrampicatori, in particolare Ettore Castiglioni. Proprio grazie a questi incontri Celso andò a scalare anche sulle montagne delle Alpi Occidentali, dove dimostrò quanto fossero forti e complete le tecniche che venivano dall’Est.
Celso era un arrampicatore molto elegante: quando saliva sembrava quasi danzare sulla roccia. Lui non usava quasi mai i chiodi per aiutarsi, ma si fidava del suo corpo e della sua testa. Si allenava tanto, come uno sportivo che si prepara per una gara, così poteva usare solo le sue forze per affrontare le parti più difficili. In poco tempo realizzò 46 vie nuove, cioè trovò e salì tanti percorsi che nessuno aveva fatto prima. Ma la sua carriera fu molto breve e finì in maniera tragica: Celso morì cadendo l’11 giugno 1933 sulla Paganella. Aveva solo 23 anni.
Celso scalò molto vicino a casa, sulle Alpi Carniche e Giulie, e ripeté percorsi importanti, come la via aperta da Comici sulla Cima di Riofreddo. Poi si spostò nelle Dolomiti e fece imprese che tutti ricordano. Le sue avventure più famose iniziarono dal 1930 in poi. Il 19 ottobre 1930, con Ettore Castiglioni e Vitale Bramani, superò lo spigolo nord della Presolana. Il 27 e 28 agosto 1931, con Castiglioni, salì la parete nord ovest della Busazza: questa salita è considerata forse la sua più bella, elegante e difficile. La parete era altissima e per salire dovettero passare attraverso camini stretti e verticali — pensa a tubi tra le rocce, dove lo scalatore si muove come un serpente o come se infilasse il corpo in uno stretto corridoio di pietra. Le difficoltà lì erano sempre molto alte, V grado e V superiore, ma nonostante questo usarono pochissimi chiodi.
Il 28 agosto 1932, insieme a Oscar Soravito, fece la prima salita dello spigolo nord dell’Agner, lungo ben 1600 metri. Nella parte finale incontrarono passaggi che allora erano di sicuro “sesto grado”, cioè fra i più duri di quel tempo. Oggi quelle parti sono un po’ più “addomesticate”, perché chi ripete quelle vie usa più chiodi e anche delle staffe per aiutarsi.
Anche sulle montagne occidentali Celso si fece valere, un po’ come Gervasutti. In una breve vacanza estiva a Courmayeur fece salite importanti: salì lo sperone Moore al Monte Bianco e ripeté una delle prime volte la cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, che allora era considerata la salita di roccia più difficile di tutte le Alpi Occidentali.
Se vuoi immaginare come fosse Celso: pensa a un ballerino che, invece di ballare su un palcoscenico, balla su una grande parete di roccia. Non si appoggia a scale o a elementi in metallo, ma usa la forza delle gambe, l’equilibrio, il coraggio e tanto allenamento. Quando trova un passo molto difficile, lo affronta senza cercare troppi aiuti.

