C’era una volta Renato Casarotto

C’era una volta un uomo di nome Renato Casarotto, che amava le montagne più di ogni altra cosa al mondo. 

Renato viveva in Italia ed era un impiegato delle Ferrovie dello Stato, ma di giorno sognava creste di ghiaccio e pareti di roccia altissime. 

Renato Casarotto impegnato su una seraccata nel massiccio del Monte Rosa © Archivio Goretta Traverso

Aveva quasi trent’anni quando, nella calda estate del 1977, si imbarcò da solo per un’avventura incredibile sulle Ande Peruviane. Dal 5 al 21 giugno scalò tutta d’un fiato, senza compagni, la ripidissima parete nord del Nevado Huascarán. Immagina di salire su una torre altissima, con la poca attrezzatura per salire e passare le notti in parete, e tua moglie Goretta che ti aspetta al campo base, impaziente di rivederti.

Renato Casarotto e Goretta Traverso

Tornato in Italia, Renato non si fermò più. Nelle Dolomiti Orientali aveva già sfidato vie difficilissime su grandi pareti, definite di ‘settimo grado’. 

Pensa che in inverno, quando quasi tutti vanno al caldo o si mettono accanto al fuoco, lui faceva solitarie al freddo e al gelo: prima sulla parete nord del Pelmo, dove passò tutto un giorno a trovare ogni appiglio come se stesse cercando un tesoro, e poi sulla Punta Civetta, nella via Andrich-Faè, come un esploratore in un libro di fiabe.

Nel 1978 Renato incontrò per la prima volta le enormi pareti californiane: in quattro giorni, tutta da solo, salì la famosa via che un certo Yvon Chouinard aveva tracciato sul Mount Watkins. Era come se avesse disegnato con i suoi passi un lungo tratto di matita su una parete liscia di granito. 

L’anno dopo, in gennaio, affrontò il pilastro nord-nord-est del Fitz Roy in Patagonia. Piantò corde fisse con le sue mani forti e, passo dopo passo, lunghezza dopo lunghezza, superò 1.500 metri di roccia dove soffiava un vento freddo, proprio come fece il grande Walter Bonatti qualche anno prima sul Petit Dru. Giunto alla cima, ritornò con il cuore pieno di gioia, dedicando la conquista alla sua amata Goretta, che come sempre stava lì ai piedi della montagna ad aspettarlo.

Poi arrivò l’Himalaya: Renato partecipò con Reinhold Messner all’impresa della ‘Magic Line’ del K2. Ma le grandi spedizioni sponsorizzate erano piene di luci, riflettori e richieste di successi. Renato, che preferiva il silenzio delle rocce e il suono del vento, si sentì a disagio e rifiutò di percorrere la via normale, preferita a quella sperata per colpa di un meteo sfavorevole. 

Tornò indietro un po’ deluso, perché per lui l’alpinismo era prima di tutto solitudine, pazienza e rispetto della montagna.

Nel 1980 tentò il Makalu in inverno, ma la montagna non lo lasciò passare. 

Dopo un anno di allenamenti e sogni, fra il 1° e il 15 febbraio 1982, compì una delle sue imprese più leggendarie: la ‘trilogia del Frêney’. Senza aiuti dal basso, senza viveri nascosti e senza parlare con nessuno, salì in sequenza tre vie difficilissime sul massiccio del Monte Bianco: la parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, il pilastro del Pic Gugliermina e il Pilone Centrale. 

Proprio quando sembrava che la bufera invernale l’avrebbe inghiottito, con coraggio e tenacia trovò l’uscita in cima.

Non soddisfatto, tra il 30 dicembre e il 9 gennaio successivo si avventurò da solo sulla terribile parete nord del Piccolo Mangart, nelle Alpi Giulie. Là la roccia era tutta coperta di ghiaccio, come un gelato che si scioglie a metà, e in un giorno avanzò di soli venti metri! Ma la sua pazienza – e quel pizzico di follia creativa – gli permisero di decifrare il ‘diedro Cozzolino’ come fosse un enigma.

Nel 1983 si avventurò sul Karakorum e, in sette giorni, scalò il grande sperone nord del Broad Peak Nord, a 7.538 metri. L’alta quota non lo spaventava più. 

L’anno dopo volò in Alaska, dove il Mount McKinley (oggi Denali) lo sfidava dall’alto con la sua cresta sud-est chiamata ‘The ridge of no return’ – la cresta da cui sembra impossibile tornare. Ma Renato la superò in prima salita: cinque chilometri di cornici di neve e ghiaccio, tutte da domare con le proprie mani.

Infine, nel marzo 1985, realizzò un sogno sulle Alpi: la via di Giusto Gervasutti sulla parete est delle Grandes Jorasses, in inverno. Ci aveva provato sei volte prima di riuscirci, come chi non si arrende finché non vince una partita difficile.

Renato Casarotto Durante la prima invernale della parete est delle Grandes Jorasses (marzo 1985) © Archivio Goretta Traverso

La sua storia si concluse ancora una volta sul K2. Il 7 luglio 1986 arrivò a 8.300 metri, a soli 300 metri dalla vetta, ma una bufera lo costrinse a retrocedere. Il 14 luglio ci riprovò, ma un’altra tempesta lo fermò. Il 16, scendendo verso il campo base, un ponte di neve sotto i suoi piedi cedette e Renato cadde in un crepaccio. Ferito, chiamò la sua amata Goretta con la radio. Gli amici corsero, ma non riuscirono a salvarlo: morì abbracciato a Gianni Calcagno, come un cavaliere che ha combattuto la sua ultima battaglia.

Forse Renato è stato l’ultimo ‘alpinista classico’, un uomo che sfidava la montagna con mezzi semplici, quasi come nei libri antichi. O forse il ‘classicismo’ cambia con i tempi: oggi ci sono alpinisti come Marc Batard, che corrono in cima al Makalu in 18 ore, al Cho Oyu in 19 e all’Everest in 23 ore e mezza. Ma anche lui, a volte, sale lento e solo su pareti difficili, proprio come Renato.

Renato Casarotto – Fonte CAI Gorizia