Che ci importa della storia? È passato e noi guardiamo al futuro. Giusto?
Ebbene non sono solita a guardare indietro, ma in certi contesti ritengo sia necessario farlo. Accade però, purtroppo, che non si voglia per pigrizia o per menefreghismo, che poi diventa semplicemente irriconoscenza.
Capita infatti di scegliere una via recente protetta a fix, una linea straordinaria di gradi elevati su uno dei meravigliosi palcoscenici che la natura ci offre, piuttosto che affrontare una via storica, aperta in artificiale, indossando scarponi o scarpette costruite da sé, e utilizzando una corda di canapa, con qualche chiodo e su roccia non sempre compatta.
Ebbene, l’itinerario sportivo dà più soddisfazione a livello di performance: vuoi mettere “liberare un 7b in via”?
Ma se faccio gli 8a in falesia, perché dovrei arrampicare su un quinto o un sesto grado in una delle vie alpinistiche aperte da un Cassin, un Comici, un Casarotto, un Soldà, un Ratti, un Bonatti, un Gervasutti, un Cozzolino (perdonami l’economicità di quella che è una lunga lista di grandi alpinisti)?
Ma che cos’è il quarto, quinto o sesto grado delle vie alpinistiche storiche? Se andiamo a consultare la tabella attuale dei gradi, noteremmo che sono 4, 5a , 5b, 5c… Sciocchezze per uno abituato a gradi ben più elevati, corretto?
Pensiamo però a come e con cosa arrampicavano i grandi alpinisti di un tempo e che negli anni di Comici, ad esempio, è stato salito per la prima volta il sesto, massimo grado dell’epoca, protagonista della famosa “battaglia del sesto grado” tra gli anni ’30 e ’40.
Il primo a riuscire nella conquista del sesto grado è stato un grande alpinista tedesco, noto per la sua famosa via sulla parete nord-ovest del Civetta e aperta nel 1925 con Gustav Lettenbauer: Emil Solleder.
E poi arrivano gli italiani:
“Emilio Comici tocca il grado massimo sulla Sorella di Mezzo e lo stesso fanno Renzo Videsott e Domenico Rudatis lungo lo spigolo della Cima della Busazza e ancora la guida Luigi Micheluzzi sullo spigolo sud della Punta Penia (Marmolada). […] Emilio Comici, nel 1933, decide di focalizzare la sua attenzione sulla nord della Cima Grande di Lavaredo. La vince, insieme ai fratelli Dimai, tra il 12 e il 13 agosto. Due anni dopo è Riccardo Cassin il grande protagonista del sesto grado grazie alla sua incredibile salita lungo la nord della Cima Ovest di Lavaredo, il problema alpinistico più ambito in Dolomiti.” (Informazioni da montagna.tv)

Devi sapere che lo standard all’epoca erano i I gradi. È nel 1926 che lo scalatore tedesco Willo Welzenbach creò una semplice scala, che poteva essere applicata ovunque e per qualsiasi arrampicata, caratterizzata da numeri romani dal I al VI.
“I. Facile. È la forma più semplice di arrampicata; si sceglie l’appoggio per i piedi e gli appigli per le mani, che si usano solo per l’equilibrio. II. Media difficoltà. È necessario muovere un arto per volta e conoscere la corretta impostazione dei movimenti. Le prese, tuttavia, sono numerose. III. Difficile. La struttura rocciosa è ripida o addirittura verticale. Le prese sono meno numerose e possono essere difficili da usare, richiedendo l’uso della forza. I passaggi però non sono obbligati. IV. Molto difficile. Le prese sono più rare e/o piccole, occorrono una buona tecnica e un certo grado di allenamento. V. Oltremodo difficile. Le prese sono molto rare, la scalata richiede allenamento, tecnica ed è fisicamente impegnativa. Di solito è necessario ispezionare il passaggio in anticipo. VI. Estremamente difficile. Appigli e appoggi sono esigui e la loro posizione richiede una specifica combinazione di movimenti ben studiati. L’arrampicata può essere molto delicata in aderenza o particolarmente faticosa su strapiombo. Sono necessari allenamento e una forza notevole nelle braccia e nelle mani.”
(Dal libro Emilio Comici. L’angelo delle Dolomiti)
“L’alpinista italiano Renato Chabod obiettò che la scala di Welzenbach non teneva conto delle condizioni meteorologiche, della caduta di sassi e delle rocce friabili. Welzenbach rispose che il suo sistema doveva prendere in considerazione le condizioni prevalenti. Un tratto di parete che asciutto era di IV grado, poteva in effetti diventare di V quando bagnato. La sua scala non era destinata alla sola arrampicata libera. Welzenbach ammetteva l’aiuto diretto tramite imbracature, l’uso di chiodi come appigli e la corda in tensione. A suo parere, qualunque via richiedesse l’utilizzo prolungato di strumenti tecnici doveva essere premiata con il sesto grado. All’epoca, le tecniche dell’arrampicata libera e artificiale non erano sempre separate in stili distinti. […] Welzenbach fu così lungimirante da raccomandare agli scalatori di rimuovere i chiodi per preservare la qualità e la difficoltà delle vie. Nel giro di pochi decenni, il numero di chiodi avrebbe superato le preoccupazioni sulla forza dei singoli dispositivi di fissaggio, ma negli anni Venti e Trenta, il ricorso ai chiodi era ancora uno dei principali motivi di dibattito per gli scalatori delle Dolomiti. […] Gli scalatori aggiunsero un più e un meno a ciascun numero romano, creando così un sistema di dodici gradi.”
(Dal libro Emilio Comici. L’angelo delle Dolomiti)
Ho iniziato da qualche anno ad arrampicare e da poco a salire vie, sportive e alpinistiche. Perché scrivo questo articolo? Perché ho commesso quello che io vedo come un grave errore: portare in montagna l’idea che fare prestazione sia l’unica cosa che potesse darmi soddisfazione. Sono solo all’inizio e ammetto la mia immensa ignoranza sull’alpinismo (non basta vedere qualche documentario e leggere alcuni libri per conoscere la storia, la tecnica e il mondo che nasconde questo argomento), ma già ho capito che, ad esempio, mettere le mani sulla stessa roccia che ha toccato Soldà, Carlesso o Casarotto non è solo un privilegio, è una promessa che fai alla storia di tramandarla nel futuro, è un impegno con gli apritori di portare rispetto ai loro gesti e alle loro imprese.
Ringrazio i miei compagni di cordata che, gettandomi a capofitto su salite che richiedono non solo capacità fisiche e tecniche, ma anche mentali, mi stanno invitando a utilizzare il punto di vista alpinistico, che mette da parte la mera prestazione per far posto all’esplorazione. La concezione alpinistica della salita ti mette in contatto con le tue paure e con i tuoi limiti, in parete devi accettare la sfida e fare il possibile per vincerla. Se non dovesse accadere, devi saper accettare la sconfitta e avere il coraggio di ritentare. L’alpinismo è uno stile di vita, è uno specchio che non riflette il tuo aspetto, ma ti fa leggere l’anima.
Le vie d’arrampicata hanno tutte un racconto e un significato, un sacrificio testimoniato dalle ore, dai giorni, dai mesi e dagli anni spesi ad aprirle, un fascino incredibile che ha origine dall’intuizione e dalla visione di una linea. Non sono campi di gioco o di gara, ma opportunità per imparare e mettersi alla prova.
Hai mai sentito parlare della goccia d’acqua citata da Emilio Comici? Voglio riportarla qui perché mi ha incuriosito e subito dopo ammaliato:

“Considerato l’emblema dell’arrampicata come fatto estetico, teorizzò una linea di salita direttissima come “quella che percorrerebbe una goccia d’acqua lasciata cadere dalla cima” e per questo è considerato l’iniziatore dell’arrampicata artificiale su tetti e strapiombi, allora insuperabili in libera.” (dall’Enciclopedia Treccani alla voce Emilio Comici).
A proposito, ti consiglio questo documentario sulla vita dell’alpinista friulano: clicca qui per accedere a YouTube.
In un suo dialogo Emilio Comici così disse
«Lo sai, caro Giulio, che la via ideale, la via elegante, è… È quella della goccia cadente.»
“Generazioni di scalatori si erano vantate di saper evitare i tratti pericolosi o troppo ostici della montagna per trovare la via o risolvere il problema. Lo scalatore di direttissime lasciava invece che la gravità decidesse il percorso dal basso e accettava le traversate solo come compromessi necessari.”
(Dal libro Emilio Comici. L’angelo delle Dolomiti)
Sulle pareti di roccia crescono mughi e stelle alpine, ma anche storie straordinarie!
Ho appena finito di guardare la serie di video-interviste a Messner, Bonatti e Cassin, riportate dalla Gazzetta dello Sport sul proprio canale YouTube, in occasione dei 100 anni di quest’ultimo. Commovente e divertente, questo dialogo tra tre straordinari alpinisti mi ha portato a circa un mese fa, quando ho concluso il libro Emilio Comici. L’angelo delle Dolomiti scritto da David Smart. No, non è per la montagna: l’associazione di informazioni è scattata quando Messner ha detto che nel suo museo ha inserito i nomi di grandi alpinisti che quando l’ha realizzato erano e sono ancora in vita per poter acconsentire al loro posto in quella lista.

Comici ovviamente non poteva esserci: è scomparso per uno stupido incidente nel 1940, a soli 40 anni.
Con tutto il rispetto per il grande Messner, poco importa non essere presenti in quella lista. Lo è invece non esserci nel cuore e nella mente delle persone, non ottenere riconoscimenti meritati, essere sconosciuti a chi sale le vie di Comici solo per divertimento o curiosità, o a chi le scarta perché ignaro della portata storica di quegli itinerari.
(Ogni parte di questa mia ultima frase ha un motivo dopo la lettura del libro sopra citato e che invito a sfogliare).
Perché Comici? Perché ho iniziato con la sua biografia a informarmi sulla storia dell’alpinismo e dei grandi nomi che l’hanno scritta (e dei grandi nomi che continuano a scriverla, magari in modo diverso, ma compiendo altrettante imprese che porteranno avanti questa storia).

In attesa di salire una sua via, avevo voglia di scrivere un articolo su di lui, per condividere con te alcuni paragrafi di Emilio Comici. L’angelo delle Dolomiti.
Ce ne sarebbero molti, ma ho scelto quelli inerenti al tema dell’attrezzatura e delle protezioni, in questo caso dei chiodi: il chiodo fisso che ha scandito, insieme ad altri temi, i tempi dell’arrampicata e che ha identificato correnti di pensiero.
E i chiodi sono anche l’elemento principale che oggi distingue le vie alpinistiche da quelle sportive. Mi sono sempre chiesta che ruolo avessero avuto questi manufatti, oltre a proteggere, e qui ho trovato delle risposte.
Iniziamo con un po’ di storia:
“Il massimo fautore della scuola viennese, il brillante solista e intellettuale Paul Preuss (Altaussee, 19 agosto 1886 – Mandlkogel, 3 ottobre 1913, ndr), evitava i chiodi e la discesa in corda doppia.”
“Kugy (Gorizia, 19 luglio 1858 – Trieste, 5 febbraio 1944, mentore di Emilio Comici, ndr) era uno scalatore nella tradizione viennese di Preuss, che anteponeva lo stile alla difficoltà.”
“Fausto Stefenelli e il veterano Alberto Zanutti. Entrambi erano seguaci di Hans Dülfer, il tedesco che scalò la parete est della Fleischbank con chiodi e corda in tensione dopo aver ispezionato la via in corda doppia, e del suo omologo italiano, Tita Piaz. Quest’ultimo, una guida della Val di Fassa, utilizzò i chiodi durante la sua rivoluzionaria prima ascensione del 1908 della parete ovest del Totenkirchl in Austria.”
“Anche la guida italiana Angelo Dibona (Cortina d’Ampezzo, 7 aprile 1879 – Cortina d’Ampezzo, 21 aprile 1956, ndr) adottò i chiodi e li usò per la sua nuova via sul Croz dell’Altissimo.”
“Nel 1933 le protezioni inserite nei fori erano rare, ma non sconosciute. I chiodi conficcati nei buchi praticati con il perforatore furono l’unica forma di protezione artificiale usata sugli Elbsandsteingebirge, le torri di arenaria lungo il fiume Elba, nella Germania orientale, ma quella zona era ancora vista dagli alpinisti come anomala e arretrata. Si dice che Hans Dülfer abbia portato con sé un perforatore, senza però utilizzarlo, durante la prima ascensione della parete est della Fleischbank nel 1913. Generalmente, tuttavia, gli scalatori delle Alpi erano stati più lenti di quelli degli Elbsandsteingebirge a adottare il concetto di protezioni inserite in prese scavate artificialmente.”
E ancora:
“Il Touring Club Italiano paragonò le cime dolomitiche provate dalle battaglie al «volto di un fratello mutilato», affermando che «il volto della montagna tormentata è tuttavia ora più bello». Tra tutti questi detriti e le memorie della distruzione, suonava ormai superata la critica prebellica secondo cui i chiodi, anche usati in quantità ridotte, avrebbero distrutto lo spirito dell’alpinismo e il tessuto delle montagne. Alla metà degli anni Venti, quando Emilio fece le sue prime arrampicate sulle Alpi Giulie e in Val Rosandra con la Società alpina delle Giulie, il clima dell’alpinismo italiano era ideale per l’esordio della grande era del chiodo.”
Grado o non grado, così un tempo si arrampicava:
“Un kit completo per l’arrampicata su roccia comprendeva cinque o sei moschettoni, dieci chiodi, trenta metri di corda di manila da dieci millimetri, alcune imbracature, un martello per il capocordata e uno più leggero per il secondo di cordata. I chiodi erano perlopiù prodotti da fabbri, e i diffusi modelli ad anello erano semplici punte con cerchietti, progettate per il trasporto di tronchi. Tutto il resto, a eccezione dei moschettoni, era fornito dai commercianti di ferramenta. Per quanto riguarda le calzature, quasi tutti gli scalatori delle Alpi indossavano ancora scarpette dalla suola di corda, anche se alcuni avevano iniziato a provare versioni da conciatetti con la suola di para.”

“Emilio e altri alpinisti italiani degli anni Venti consideravano indispensabili i chiodi e altre attrezzature. L’impiego dei chiodi proseguiva, nella loro mente, l’evoluzione storica dell’alpinismo e anticipava il futuro. […] Emilio improvvisò e innovò […] Estese l’uso del chiodo a situazioni ancora più pericolose, adottando modelli abbastanza forti per sostenere il peso del corpo ma non abbastanza da sopportare una caduta.”
Ma la salita in artificiale comprendeva anche altre tecniche di salita con ulteriori attrezzature oltre ai chiodi:
“Emilio voleva qualcosa di più versatile. Legò tre anelli a formare dei pioli e creò così una versione in miniatura delle scale di filo metallico che aveva usato nelle grotte: le staffe. Emilio arrampicava spesso con due staffe, una per piede. […] Quasi tutti gli alpinisti poi si legavano la corda intorno al petto, ma Emilio scoprì che l’allacciatura in vita gli forniva una leva migliore, e una portata più ampia di diversi centimetri.”
Certo, l’attrezzatura è importante, però anche la tecnica, la modalità di salita, la mente, l’organizzazione sono indispensabili. Ed Emilio lo capì:
“Nonostante tutto il suo lavoro sui chiodi, Emilio vedeva comunque l’arrampicata libera come la base dell’arrampicata su roccia e si impegnò per il miglioramento sistematico delle tecniche e dei movimenti fondamentali. […] Emilio decise che in seguito avrebbe portato con sé meno equipaggiamento e, nonostante la sua successiva reputazione di arrampicatore che faceva affidamento sull’attrezzatura, fu famoso nel corso della sua carriera perché portava meno chiodi, viveri e attrezzatura da bivacco rispetto ai compagni e perché preferiva la velocità e la sicurezza al comfort.”
Chi era il sestogradista?
“L’ideale filosofico del sestogradista era l’immersione assoluta nell’esperienza della scalata. Lo sforzo psicologico che l’impresa imponeva agli scalatori liberava energie nuove e inesplorate. Emilio descrive una sorta di sintesi tra mente e corpo sul Civetta, paragonandola al rapporto tra pilota e auto sportiva. Più spingeva il suo corpo al limite, e più quello rivelava le proprie capacità nascoste.”
Eppure anche il passato ha un passato e ogni tesi ha la sua antitesi:
“Alcuni si rifecero all’ideale di Paul Preuss, che aveva incoraggiato gli scalatori a contare su se stessi e non sull’equipaggiamento. Altri rimpiangevano la semplicità di fine Ottocento. Kugy e gli anziani veterani di stampo vittoriano, inclini ad abbandonare le rocce di tanto in tanto per dedicarsi alla botanica, avvertirono che la pericolosa corsa a vie sempre più difficili distraeva gli alpinisti dalle gioie semplici dell’arrampicata. Su entrambe le sponde della Manica, alcuni sostennero che la corsa alla Nordwand avrebbe spinto i giovani scalatori ad autodistruggersi andando in cerca di fama. Emilio e gli altri sestogradisti restarono indifferenti a tutto ciò: avevano ridefinito l’arrampicata proprio in quanto ricerca della difficoltà ed erano disposti, se necessario, a pagare le loro conquiste con la vita.”

Ti lascio con l’ennesima citazione dal libro, che spero porterai con te nelle tue salite:
“Emilio imparò una cosa che diventò un dogma del suo arrampicare: non c’era modo di sapere se la parete soprastante avesse prese o fessure, se non provandola.”
Questo articolo vorrei fosse un, seppur umile, invito a conoscere la storia e come grandi uomini e donne hanno rivoluzionato il modo di raggiungere il cielo.