Pietro Crivellaro svela il Monte Rosa tra il 1819 e il 1822

Ho avuto la fortuna di parlare ancora con Pietro Crivellaro, questa volta sul Monte Rosa. Quando sono state esplorate le sue vette? Da chi? E perché sono molto importanti queste esplorazioni? Forse più della prima salita alla punta più alta del massiccio.

A queste e ad altre domande ho trovato parecchie risposte da parte di un alpinista, accademico del CAAI, scrittore e attento ricercatore, scrupoloso quanto basta per svelare sul Monte Rosa un’immensa combinazione di informazioni, di cui molte sono rimaste celate per anni.
La storia del Rosa, infatti, come quelle di molte altre montagne, non è solo ‘la prima salita alla vetta’: l’anima di queste storie è plasmata dalle numerose esplorazioni, dalle loro motivazioni, dall’ingegno e dalle capacità dei loro protagonisti.

Ecco che per raccontare la storia del Monte Rosa conosceremo Vincent, Zumstein, von Welden e molti altri che, grazie ai loro obiettivi, all’orgoglio e all’ambizione, al talento e alla sagacia, hanno acceso l’ardente fiamma della scoperta.

Ho un piccolo segreto, una sorpresa: ho trovato delle lettere di Vincent.

Ah, davvero!

Sì, nell’Archivio di Stato di Zurigo. Le sto facendo tradurre, con difficoltà perché sono scritte in un tedesco che verrà normalizzato più tardi, cucite dentro a una raccolta epistolare.

Si tratta della stessa raccolta in cui 40 anni fa venne trovata una fondamentale lettera del dottor Paccard a Johann Gottfried Ebel, dottore di Zurigo, ma soprattutto geografo, autore di una guida delle Alpi svizzere del 1792 in tedesco, poi tradotta in francese, ristampata più volte. Praticamente l’antenata della Guida Baedeker. 

Questo Ebel intorno al 1820 scrive agli esponenti più in vista, conoscitori delle Alpi, tra i quali il dottor Paccard e Jean Nicolas Vincent: in questa corrispondenza ho trovato due lettere di Vincent, in cui risponde a Ebel parlando del versante di Zermatt del Monte Rosa, che lui cercava di esplorare, e del suo essere stato molto ostacolato dalla crescita dei ghiacciai negli ultimi anni. Una lettera è del febbraio 1822, di 8-9 pagine, e l’altra è di due o tre pagine, più o meno della stessa epoca, in cui Vincent dice di avere tentato di salire da Zermatt verso Gressoney e il colle del Lys (che non si chiama così fino a dopo metà ‘800).
Il colle del Lys è un passaggio nevralgico decisivo, quello che permette l’esplorazione del cuore del Monte Rosa, delle alte vette, e in particolare la salita alla Piramide Vincent e alla punta Zumstein.

Il Colle del Lys è raggiunto nel 1778 dai pionieri, quelli della Roccia della Scoperta.

“È molto probabile che la prima traversata da Gressoney a Zermatt per il colle del Lys risalga all’epoca della salita alla Roccia della scoperta, nel 1778 e nei due anni successivi. Appare sospetta la rinuncia dichiarata da quei pionieri a scendere verso Zermatt a causa del muro di ghiaccio su cui si affaccia la Roccia della scoperta: basta spingersi un po’ oltre sul vasto altopiano del colle del Lys, per aggirare il muro di seracchi e trovare facili pendii per seguire il ghiacciaio nella sua discesa verso il fondovalle.”
[Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822), a cura di Pietro Crivellaro]

Sul colle c’è il ghiacciaio, giusto?

Sì, estesissimo e pianeggiante, dove sorge uno scoglio, e su quella piccola roccia si fermarono i sette montanari di Gressoney per guardarsi attorno alla ricerca della cosiddetta valle perduta. Ma su quella storia i sette gressonari, a mio parere, hanno cercato di confondere le idee per non svelare tutta la verità, i loro veri moventi. 

E quali sono i veri moventi?

Questi gressonari, cacciatori di camosci, sono in grado di affrontare l’alta montagna selvaggia, anche i ghiacciai, allo scopo di cercare un passaggio più breve per recarsi a Zermatt, alternativo al colle del Teodulo, che loro frequentano da secoli per dedicarsi alla emigrazione commerciale. 

Loro infatti sono dei venditori ambulanti che portano il meglio delle mercanzie, soprattutto tessuti, dall’Italia in Svizzera tedesca e in Germania del Sud, o meglio Württemberg e Baviera, dove si insediano creando degli empori e delle ditte molto fiorenti di commercio. 
Questi gressonari diventano ricchi e si costruiscono delle case imponenti, lussuose, ma rimangono sempre montanari affezionati a Gressoney, dove tornano una volta all’anno per due mesi. 

Il loro itinerario attraversa appunto il colle del Teodulo, il ghiacciaio: passano la Bettaforca, costeggiano la valle d’Ayas scendendo a Saint-Jacques, o meglio a Resy, una borgata sopra Saint-Jacques detta anche San Giacomo dei Tedeschi. Poi proseguono lungo il vallone di Cime bianche, raggiungono l’alta Valtournenche per proseguire verso il colle del Teodulo, a 3300 metri di quota e attraverso il Teodulo scendono a Zermatt, a Visp, nella valle del Rodano, e di lì si trasferiscono nel resto della Svizzera.

Ma perché cercare un percorso alternativo al Teodulo? Questo itinerario è controllato dai finanzieri per il contrabbando: il passaggio alternativo è alla portata di mano, il colle del Lys, anche se poi si rivelerà impraticabile e molto più pericoloso, dove non è possibile passare con degli animali.

Quindi si può dire che le prime ascensioni del Monte Rosa sono state fatte per un fine commerciale.

È così. Anche se in realtà non sono vere e proprie ascensioni del Monte Rosa: l’obiettivo è forzare la muraglia dei ghiacciai attraverso dei passaggi per creare collegamenti. E quelli più accessibili stanno uno all’estremità occidentale, tra il Breithorn e il Cervino, ed è il colle del Teodulo, e l’altro sta all’estremità orientale, il passo di Monte Moro, che sta sopra Macugnaga, perché tutta la barriera in mezzo alla quale sorge il colle del Lys è impraticabile ai traffici normali. 

Troviamo questa testimonianza del colle del Teodulo anche su un altro ambito: un testo militare. Le anticipo qui un settore di ricerche alternative rispetto a quelle consuete della storia dell’alpinismo, la quale tocca solo limitatamente il contesto storico, geografico e sociale.

Forse perché si tende a voler mitizzare gli alpinisti, a renderli protagonisti…

Certamente.
Dunque, devo citarle qui un libro importante collegato a quanto le stavo dicendo, un testo del famoso reverendo William Auguste Brevoort Coolidge, americano naturalizzato inglese e trapiantato a Grindelwald, dove ha vissuto gli ultimi 30 anni della sua vita. 

Nel 1904 Coolidge pubblica un libro intitolato De Alpibus. Josias Simler e le origini dell’alpinismo fino al 1600 (Josias Simler et les origines de l’alpinisme jusqu’en 1600). Il ragionamento di Coolidge si basa sulle sue ricerche da Alessandro Magno e Annibale in avanti, testimonianze di scalate e di passaggi alpini, per cui quelle che noi chiamiamo difficoltà alpinistiche lui le considera alpinismo puro e semplice. Ma in realtà è una forzatura, perché Annibale non scala le Alpi per passione, ma per uno scopo militare. Giulio Cesare non passa le Alpi perché ha a che fare con l’alpinismo, però indubbiamente affronta delle difficoltà alpine. Quindi questo libro di Coolidge ha alimentato degli equivoci tra gli storici dell’alpinismo. 

Ha però un grande merito: quello di aver valorizzato un documento di fine ‘600, che supera il confine del 1600 che lui si era posto come limite. È un documento militare trovato da Luigi Vaccarone nell’archivio di Stato di Torino ed è una memoria militare di tutti i passaggi della cerchia di montagne che racchiude la Valle d’Aosta, accessibili al nemico per entrare nella zona. 

È di Philibert-Amédée Arnod ed è scritta nel 1691 con annotazioni del 1694. In questa memoria manoscritta di circa trenta pagine Arnod descrive numerosi passaggi sui ghiacciai, tra i quali naturalmente il Teodulo, a proposito del quale scrive che i montanari sono soliti passare aiutandosi con delle assi, che usano per far attraversare i crepacci agli animali, a differenza degli alpinisti che li passano con delle scale, come fece Horace-Bénédict de Saussure. 

Arnod parla di 15-20 colli di ghiacciai, tra Gressoney, Courmayeur e Chamonix. E Arnod dice anche che due o tre anni prima scrisse a Sua Maestà il duca Vittorio Amedeo II di aver provato a ingaggiare due o tre tra i più abili cacciatori (già Arnod parla di cacciatori, che sono i più abili attraversatori di ghiacciai). 

I cacciatori infatti sono gli unici montanari allenati ad affrontare difficoltà alpinistiche, sia di roccia sia di ghiaccio. Ma questi cacciatori non sono riusciti ad attraversare il tragitto tra Courmayeur e Chamonix per i ghiacciai, ultimamente cresciuti e pieni di crepacci. 

Queste informazioni di Arnod ci aprono degli orizzonti sulla storia dell’alpinismo. Se torniamo ai pionieri del Monte Rosa, quelli che hanno per primi visto la Roccia della scoperta sono tutti e sette cacciatori di camosci.

Quindi i sette cacciatori erano quelli che volevano scoprire il passaggio per i commercianti, è corretto?

Sì, erano loro. Quella del contrabbando è l’ipotesi che faccio io. La suggerisco sulla base di due o tre indizi che si trovano nei resoconti di Zumstein, che ho pubblicato nel libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

La copertina del libro a cura di Pietro Crivellaro.

Zumstein ha inizialmente pubblicato i suoi scritti nel libro di Welden, pubblicato a Vienna in tedesco nel 1824, poco conosciuto. In un punto scrive di essere arrivato sul colle del Lys, dal quale ci sarebbero volute ancora sei ore per scendere a Zermatt. Ma come fa a dirlo se nessuno è mai sceso a Zermatt di lì? Vuol dire che qualcuno era già sceso a Zermatt per quell’itinerario.

C’è poi un’altra testimonianza, quella di un erede di Vincent e di Zumstein (tra loro imparentati), che dice di essere già sceso a Zermatt. 

Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

Una conferma ufficiale arriva nel 1845 da John Ball, uno dei fondatori dell’Alpine Club e primo presidente (a fine 1857), autore della guida delle Alpi in tre volumi (1863, 1866, 1869). Nel 1845, facendo le sue prime ricerche botaniche sul versante svizzero del Monte Rosa, si trova a Zermatt e ipotizza di passare il muro del Monte Rosa attraverso lo Schwarztor, o Porta Nera, da Zermatt.
E racconta che con grande sorpresa questa sua iniziativa destava l’entusiasmo degli abitanti di Zermatt, cosa che lui non riusciva a spiegarsi. Non c’era nessuno in grado di accompagnarlo e difatti andrà nel 1845 con uno che gli fa da portatore, l’inesperta guida Matthias Taugwalder.

Se fosse riuscito a passare dalla Porta Nera, si sarebbero potuti riprendere gli affari di contrabbando fuori dal controllo dei finanzieri, che controllano il passo del Teodulo.

“[…] gli zermattesi gli dicono che cinquanta o sessant’anni prima degli uomini di Gressoney erano arrivati attraverso gli alti ghiacciai del Rosa. Cioè dei gressonari hanno sperimentato il tragitto che si è rivelato troppo arduo e lungo per essere poi davvero praticato. […] tutti a Zermatt sperano che egli (John Ball, ndr) scopra un varco agibile e diretto tra Vallese e Valle d’Aosta per riuscire a esportare tabacchi, liquori e cotone, evitando i doganieri del re di Sardegna che vigilano sul Teodulo. […] La Porta Nera però si rivelerà un colle del tutto inadatto ai sognati traffici a causa di una seraccata che ne ostacola l’accesso da Zermatt.”
[Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822), a cura di Pietro Crivellaro]

Quindi la Porta Nera sarebbe per i gressonari l’alternativa perfetta per il loro commercio?

La Porta Nera è tra il Breithorn e i Gemelli, dove c’è anche il Col di Verra: dunque sì, sarebbe un’altra via per il commercio, più bassa e da Zermatt. Ma ci sono dei crepacci difficili da superare, quindi non è un passaggio comodo.

John Ball è riuscito nella traversata, sia pure con notevoli difficoltà alpinistiche: egli era già un alpinista esordiente, in grado di affrontare quelle difficoltà, che però erano troppo per i commercianti. Quella via non era consigliabile per i contrabbandieri.

Dunque John Ball ha forzato la barriera molto più a occidente del colle del Lys, tra il Polluce e la Porta Nera, dove c’è anche il colle di Verra.

Le chiedo di farmi chiarezza sui diversi punti del Monte Rosa che mi ha nominato…

Il Monte Rosa ha una barriera che comincia dal colle del Teodulo e sono il Breithorn, che raggiunge quota 4000 metri e precipita a 3700 metri sulla Porta Nera, e il Polluce con i suoi 4091 metri. C’è poi il colle di Verra e il Castore con i suoi 4230 metri. Il colle di Felik è a 4050 metri e il Lyskamm è un’altra muraglia che tocca i 4500 metri estesa più di tre chilometri. 

Qui troviamo diverse vette…

Fu Welden nel periodo successivo a dare  i nomi alle diverse vette.

Particolare ingrandito della carta disegnata da Ludwig von Welden, Topographische Carte des Monte-Rosa und seiner Ungebungen, incisa da D. Bonati, Milano 1823, allegata al libro dello stesso Welden Der Monte-Rosa (Wien 1824). Il tracciato in rosso evidenzia il percorso punteggiato alla Punta 4 G, ossia Zumsteinspitze, del 31 luglio e 1° agosto 1820. Per mancanza di spazio adeguato, Welden rinuncia a scrivere sulla carta i nuovi nomi delle vette e li riporta solo nel cartiglio. Invece denomina tutti i siti notevoli lungo il percorso usando i nomi del resoconto Zumstein.
Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

“Di fronte all’esigenza non più rinviabile di dare un nome alle diverse vette per uscire dal vago, Welden non può ignorare il lavoro già svolto da Zumstein. Il gressonaro ha già individuato e descritto le varie punte denominandole con lettere dell’alfabeto: egli conta che i resoconti dei nuovi viaggi vengano presto pubblicati da parte dell’Accademia. Ma la pubblicazione a Torino stranamente non avverrà, per ragioni che solo ora risultano chiare. Infatti dopo il primo viaggio del 1819, pubblicato in francese nel tomo XXV delle Memorie, i manoscritti degli altri quattro viaggi del 1820, 1821 e 1822, rimarranno inediti nell’archivio dell’Accademia. Sono quelli che, tradotti, vengono pubblicati integralmente in italiano solo ora, duecento anni dopo. […]
Per riconoscere le imprese dei gressonari Welden assegna alla vetta salita nel 1819 il nome di Vincent Pyramide e quello di Zumsteinspitze alla vetta salita nel 1820. Chiama poi Signalkuppe quella più adatta secondo Zumstein ad ospitare un grande segnale trigonometrico, battezza Parrotspitze una delle punte intermedie in omaggio al fisico tedesco autore del tentativo del 1816 e denomina Ludwigshöhe la cima che lui stesso ha salito il 25 agosto 1822. Sulla cartina adotta inoltre come toponimi punti caratteristici individuati nei viaggi di Zumstein, segnando gli itinerari con punteggiature.”
[Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822), a cura di Pietro Crivellaro]

Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

E sulle vette ci sono degli equivoci…

Ebbene, far credere che Friedrich Parrot sia salito sulla Parrot, come qualcuno ha scritto, è un primo grande equivoco. Parrot ha tentato nel 1816, e non nel 1817, di salire la Piramide Vincent (che ancora non aveva questo nome), cioè la prima punta che si trova andando verso il colle del Lys, ma è riuscito ad arrivare solo a 3900 metri, sui 4200 metri reali. 

Un altro equivoco è la Punta Zumstein. Welden ha attribuito il merito a Zumstein, che ce l’ha fino a un certo punto. Zumstein ha organizzato la spedizione insieme a Vincent e al fratello Joseph Vincent. Ma i primi ad arrivare in vetta sono stati di nuovo Vincent e suo fratello. E Zumstein, che non era un alpinista così provetto, ha faticato parecchio per arrivare in vetta. Vincent si è dispiaciuto dell’accaduto, perché era arrivato in vetta prima il fratello e avrebbe voluto che la punta avesse il suo nome.

In realtà Vincent, il fratello e Zumstein si erano accordati per chiamare quella punta Cima dell’amicizia, dove piantarono una croce di ferro con un’incisione delle loro iniziali. Questa croce resistette più di un secolo.

Ci fu sempre un dissidio tra Vincent e Zumstein sull’equità di Welden nel dare i nomi alle vette del Monte Rosa. Anche perché tutti a Gressoney sanno che in vetta arrivarono prima i due fratelli Vincent e non Zumstein. Quindi si ritiene che Welden abbia fatto un favore esagerato a Zumstein, ma nel mio libro io spiego anche che effettivamente nella spartizione della gloria Zumstein è stato quello che più si è impegnato nella comunicazione: ha intrattenuto i rapporti con l’Accademia delle Scienze e anche con Welden. Quindi diciamo pure che Zumstein merita di avere una sua cima.

Anche per l’apporto informativo che ha dato…

Sì, per l’apporto storico, per l’iniziativa che ha preso e altro.

E comunque c’è la punta Vincent, anche se è più bassa.

Ah, certo, è logico che ci sia la Piramide Vincent, perché il primo a salirla è stato lui, per una ricognizione. Solo dopo una settimana è tornato con Zumstein.

Due o tre giorni dopo Vincent anche Bernfaller, reverendo canonico dell’ospizio del Grand San Bernardo e curato a La Trinité Gressoney ha fatto la stessa salita, di notte, perché lui è un vero montanaro, astuto, che con la luna sa che non sarebbe sprofondato nella neve come succede col sole.
Bernfaller non è originario della Valle d’Aosta, ma del Vallese, ed è un frate del San Bernardo, che viene a fare il parroco di Gressoney grazie a un accordo, in quanto Gressoney ha bisogno di parroci che sappiano parlare il tedesco. E oltre a sapere il tedesco, questo Bernfaller ha esperienza di alta montagna.

Ma torniamo al discorso di prima: Zumstein sarà il terzo salitore insieme a Vincent, dopo Vincent e dopo Bernfaller.

Un altro equivoco sulle vette è quello di Vaccarone e Buscaini, che nella guida del Monte Rosa scrivono che pochi giorni dopo la Vincent fu salita la Zumstein. Non è vero. La Zumstein viene salita un anno dopo in seguito ad altre vicende: alla comunicazione da parte di Zumstein all’Accademia delle Scienze di Torino della compiuta ascensione alla Piramide Vincent, che determina un resoconto scritto e firmato da Zumstein pubblicato nelle memorie dell’Accademia in francese. 

“[…] uno dei primi a prendere l’abbaglio fu nientemeno che Luigi Vaccarone, alpinista egregio e sommo storico, che nel 1885 compilò la Statistica delle prime ascensioni dal Monviso al Monte Rosa, caposaldo ufficiale della storiografia CAI. Apparse dapprima sul Bollettino CAI, le tabelle ampliate e corrette uscirono in un volumetto nel 1890, ma per la Zumsteinspitze sull’ultima pagina Vaccarone persevera nell’indicare ancora il 12 agosto 1819, mentre la data esatta è 1 agosto 1820. Con una fonte così autorevole è naturale che l’errore si sia diffuso e tramandato in tanti testi, fino ai giorni nostri, ingannando anche l’ultima guida del massiccio Monte Rosa e Mischabel pubblicata dal CAI con il TCI nel 1990, opera del resto eccellente di Gino Buscaini, altro autore e alpinista scrupoloso e di solida competenza.”
[Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822), a cura di Pietro Crivellaro]

In questo resoconto (la ristampa CAI di Voyage sur le mont Rose et première ascension de son sommet méridional confinant avec le Piémont. Par J. de François Zumstein dit De la Pierre et Jean-Nicolas Vincent, de Saint-Jean de Gressoney, au mois daout 1819, nel numero 24 del Bollettino del CAI del 1875) Zumstein narra l’ascensione alla Piramide Vincent, ma i lettori si confondono e pensano che Zumstein, che firma quel resoconto, parli della salita alla Punta Zumstein, ma invece tratta della salita alla Punta Vincent. Fraintendimento determinato anche dal fatto che in quell’epoca non erano ancora identificate le cime con una denominazione. Il resoconto della Punta Zumstein apparirà soltanto nel libro del Monte Rosa nel 1824.

“[…] Vaccarone ignora la spedizione di Vincent, Zumstein e 11 compagni col drammatico bivacco proprio sul colle del Lys del 31 luglio 1820, perché non conosce il racconto di Zumstein uscito solo sul libro di Welden (Vienna 1824), raro e in tedesco.”
[Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822), a cura di Pietro Crivellaro]

Voglio chiederle una curiosità: perché tutta questa risonanza mediatica per Zumstein e Vincent quando la conquista della cima più alta del Monte Rosa è stata compiuta da altri?

Bisogna collocare le vicende nel loro contesto e nella loro epoca. La prima salita della punta più alta del Monte Rosa è stato il completamento di tutto il percorso fatto precedentemente e che ha permesso di raggiungere l’obiettivo. Ma in realtà l’esplorazione, il grosso dell’esplorazione, è avvenuto prima, quindi il raggiungimento della vetta più alta è un dettaglio di pignoleria alpinistica. Gli altri eventi invece rivestono un’importanza storica molto più ampia, perché aprono gli occhi sulla costituzione del massiccio, che in precedenza non era mai stato descritto. 

Vincent e Zumstein sono quelli che permettono a von Welden due anni dopo di disegnare la prima carta che descrive il Monte Rosa. Com’era prima nessuno lo sapeva: ecco perché queste salite, nel 1819 e 1820, hanno un’importanza enorme.

Ma c’è anche una ragione in più: nella sua prima salita della Piramide Vincent Zumstein col barometro fa calcoli un po’ di manica larga e ipotizza che il massiccio del Monte Rosa sia più alto del Monte Bianco. Questo scatena in Europa un dibattito tra gli scienziati, capeggiati soprattutto dal Barone von Zach, astronomo e geografo, titolare di un giornale scientifico astronomico patrocinato dalla duchessa di Gotha (di cui lui era segretario e forse qualcosa di più, non per fare il moralista!). Von Zach si mette a discutere su queste cime e pubblica una corrispondenza astronomica, geografica, idrografica, in cui si disquisisce sulle quote del Monte Bianco e del Monte Rosa. Questo accende un dibattito che entusiasma tutti gli scienziati e arriva all’Accademia delle Scienze di Torino, la quale finanzia una nuova spedizione a Zumstein per salire sulla massima vetta del Monte Rosa con uno specialista, l’ingegner Molinatti da Torino.

Barometro portatile realizzato dai «Fratelli Conti Ottici Metereologisti di S.S.R.M. a Torino», gli stessi fornitori del barometro di Zumstein (vedi supra n. 38). Montato su due tavolette di legno leggero chiuse a libro con cerniere, altezza cm. 92,5, larghezza aperto cm. 11,8. Gentile concessione della dott. Daniela Giorgi, Antik arte e scienza, Milano.
Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

In questa spedizione c’è anche Vincent?

Certo, lui c’è sempre. È Vincent il vero alpinista, lo sostengo e lo documento.

Dunque nel Monte Bianco era lo scienziato (Paccard) quello più bravo della guida (Balmat) e nel Monte Rosa abbiamo l’alpinista che fa bene il suo mestiere.

Sì, ma in realtà è un alpinista anche Zumstein, è cacciatore: se ne intende moltissimo di caccia, ma la sua pecca è che si spaventa facilmente. Nel suo resoconto, infatti, si legge di “un abisso spaventoso” sotto di lui. Forse esagera un po’, per darsi qualche aria di fronte agli accademici di Torino, ai professoroni che non conoscono le difficoltà nell’andare in montagna. 

Cosa succede nella spedizione con l’ingegner Molinatti? 

Nella spedizione dell’estate 1820 sono in 13, tra cui tanti portatori con pentole, legna da ardere, materiali per bivaccare con una tenda… Ma rischiano di morire tutti assiderati sul colle del Lys, perché alcuni di questi carichi sono messi sulle spalle di operai di Vincent, minatori, che con il sole a dardeggiare sui loro occhi hanno delle oftalmie e abbandonano il carico tornando indietro. Per fortuna sul colle del Lys arrivano anche gli altri portatori, quelli che non sono tornati indietro, e si infilano dentro a un largo crepaccio, scendono giù per 20 metri e all’interno montano la tenda, si scaldano la minestra e dormono vicini come delle sardine, riuscendo a far fronte a una tempesta. Al mattino si alza il sole, la tempesta è passata e loro riescono a salire sulla Punta Zumstein. Questo episodio del bivacco notturno a 4000 metri è una pagina fondamentale nella storia dell’alpinismo. Avrebbero potuto morire assiderati in 10. 

Si guardano attorno, puntano alla cima e la raggiungono: l’unica cima per loro accessibile (nel 1820).

La salita di Vincent e Zumstein è fondamentale perché dà finalmente uno sguardo scientifico-alpinistico, documenta la vera struttura del Monte Rosa. Nel libro che ho curato, Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa, ho messo in copertina questo disegno che è il Monte Rosa visto dall’Osservatorio Astronomico di Torino, eseguito da Zumstein che chiamò le vette con le lettere dell’alfabeto A, B, C, D, eccetera.

Tavola acquerellata delle vette del Monte Rosa viste dall’osservatorio astronomico di Torino.
Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

Quindi, ricapitolando, la spedizione alla Punta Zumstein è compiuta e capeggiata in teoria da Zumstein, ma in pratica da Vincent e da suo fratello. È corretto?

Corretto.

Ma perché, secondo lei, Vincent non ha lasciato scritti, testimonianze?

Semplicemente come il dottor Paccard: perché sono andate perdute.

Lei ha scritto nel libro “i manoscritti degli altri quattro viaggi del 1820, ’21 e ’22 rimarranno inediti nell’archivio dell’Accademia. Sono quelli che, tradotti, vengono pubblicati integralmente in italiano solo ora, 200 anni dopo.” 

Giusto.

Perché sono rimasti inediti nell’archivio? 

Zumstein ha fatto una duplice redazione dei suoi viaggi, per diventare membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze e nello stesso tempo per diventare ispettore dei boschi della provincia di Valsesia: è riuscito a farsi assumere dal governo sardo-piemontese, sia pure con un mestiere malpagato, ed è diventato socio-corrispondente dell’Accademia delle Scienze. Ha così fornito i resoconti dei suoi viaggi. Ma a Torino sono rimasti inediti, perché i membri dell’Accademia delle Scienze si sono indispettiti che resoconti analoghi fossero usciti anche a Vienna, nel libro di Welden.

Nel suo libro nomina anche un certo Castel…

In alcuni dei cinque viaggi di Zumstein c’è Castel, una guida che fa anche da portatore, un bravo cacciatore di camosci e colui che se la cava sui ghiacciai, che scava le impronte per i pendii ripidi… Questo Castel è un manovale, un uomo di fatica. Nel penultimo viaggio rischiano la vita in una bufera, intrappolati nella nebbia: Zumstein è testardo, vuole comandare, ma non è un vero alpinista e rischia di lasciarci la pelle. A quel punto litiga con Castel, che decide di non tornare più con Zumstein.

Nel quinto viaggio di Zumstein, infatti, Castel non ci sarà, ma andrà, lo suppongo io, a Zermatt.

Castel e Vincent a Zermatt cosa fanno?

Non lo sappiamo con esattezza. Noi sappiamo che vengono incontrati sul colle del Teodulo in quei giorni da un giovane geologo zurighese, Hans Caspar Hirzel-Escher, il genero di Hans Conrad Escher, grandissimo esploratore delle Alpi e famoso autore di Panorami delle Alpi che ha realizzato tra il 1784 e il 1824, una quantità di panorami, di vedute di montagna meravigliose, quasi iperrealiste, con un grandissimo talento di pittore e di geologo. 

Hans Conrad Escher von der Linth. Dal lato nord del Cervino verso il Monte Rosa tra Vallese e Piemonte, 15 agosto 1806. Veduta dal Teodulo verso il Piccolo Cervino e il Breithorn, che Escher chiama Monte Rosa.
Dal libro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa (1819-1822).

Questo giovane nel 1822, facendo un giro del Monte Rosa da Zurigo, incontra Vincent e lo scrive. 

“Dal suo resoconto di un giro del Monte Rosa compiuto nel luglio 1822, risulta che il giovane viaggiatore incontrò il commerciante e imprenditore di Gressoney sul ghiacciaio tra il Teodulo e Zermatt il 27 luglio. Jean Nicolas Vincent stava tornando da una esplorazione sul versante settentrionale del Rosa compiuta con due guide svizzere. Probabilmente alla ricerca di una via di salita alla Höchste Spitze dal lato più facile, dopo averla vista inaccessibile dalla vetta scalata con Zumstein nel 1820. Oppure per trovare il passaggio sui ghiacciai del lato svizzero fino al colle del Lys per completare la traversata a Gressoney. Proprio nei giorni in cui Zumstein ha appena ‘fallito’ il quarto viaggio e si appresta a fare il quinto.”
[dal libro a cura di Pietro Crivellaro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa]

Ma chi ha messo piede per primo sulla punta più alta del Monte Rosa? 

Dobbiamo fare un salto al 1855.

I salitori sono il reverendo Charles Hudson con altri cinque preti anglicani e tre guide svizzere: quindi sono gli inglesi che per primi sono arrivati sulla Höchste Spitze (la punta più alta, dal 1863 Dufourspitze), già sfiorata negli anni precedenti, ma non raggiunta davvero. 

Da qualche parte si parla di 1851.

È un errore e c’è una grossa differenza tra il ’51 e il ‘55. Quelli che salgono nel ’51 sono i fratelli Schlagintweit, che raggiungono la ‘quasi punta’, ma non la vera punta. Obiettivo degli Schlagintweit era l’aggiornamento della carta con maggiori dettagli dell’intero massiccio.

Oltre alla Dufour, conosciamo bene la Punta Gnifetti. Anche Giovanni Gnifetti ha avuto un ruolo nel consolidare le esplorazioni di Vincent e Zumstein, è corretto?

Gnifetti ha ulteriormente consolidato l’importanza delle esplorazioni di Vincent e Zumstein. Anzi, Gnifetti, da parroco di Alagna, scrive nel suo volumetto Nozioni topografiche sul Monte Rosa e ascensioni su di esso di essere un ammiratore di Zumstein. Sostanzialmente dice “io ho voluto imitare Zumstein. Ma attenzione, benevolo lettore, io non sono uno scienziato, faccio il parroco, e intendo esplorare sulle orme di Zumstein le straordinarie bellezze del Monte Rosa, che sovrasta la valle di Alagna”. 

E c’è una ragione teologica secondo Gnifetti: “Dio, che è somma bontà, non può avere creato un massiccio inaccessibile, quindi ci deve essere una possibilità di andare in vetta”. 

Ma qual è il vero obiettivo di Don Gnifetti? Quello di esplorare una via accessibile al Monte Rosa per incoraggiare i viaggiatori a frequentare la valle di Alagna e per creare una fonte nuova di reddito, per i montanari che non siano costretti a emigrare per andare a guadagnarsi il pane all’estero. 

Tant’è vero che Don Gnifetti morirà nel 1867 a Saint-Étienne ospite degli emigranti alagnesi. Lui compie vari tentativi alla Signal Kuppe, ma anche lui confessa di non essere un cuor di leone in alta montagna. Malgrado questo, dopo aver fatto un tentativo nel ’34, uno nel ’36 e uno nel ’39, finalmente il 9 agosto 1842 riesce ad arrivare, con un gruppo di alagnesi tra cui il chierico Farinetti. L’itinerario è quello di uscire dalla valle di Alagna, perché troppo ripido. 

Dal versante di Alagna è salito Giordani nel 1801, ma si è fermato a un’anticima della Piramide Vincent. La punta Giordani è uno sperone a 4000 metri, parecchio più basso della punta della piramide. 

“A me pare che i tentativi e il successo finale del parroco alagnese siano il coronamento delle aspirazioni già formulate a inizio Ottocento dal Giordani, rievocate dalla recensione milanese a Welden: i fatti mostrano la distanza che c’è in alta montagna a quei tempi tra il dire e il fare. Un conto è sognare una meta, ma per raggiungerla ci vuole esperienza, materiali adatti, logistica e una forte motivazione. Quella del parroco alagnese è molto vicina agli ideali dei santi sociali dell’Ottocento torinese: don Gnifetti usa il barometro, ma non scala per la scienza; egli vuole invece dare l’esempio per attirare viaggiatori a frequentare lo stupendo e maestoso massiccio della sua valle.
[dal libro a cura di Pietro Crivellaro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa]

La punta si chiama Signal Kuppe perché il Barone von Welden la identifica come vertice trigonometrico per le misurazioni topografiche del Monte Rosa. E tutto questo è un retroscena scientifico che si intreccia con la storia alpinistica. 

Il Barone von Welden è un topografo più che un alpinista e realizza la carta del Monte Rosa perché nello stesso tempo lui sta misurando l’arco di parallelo medio che attraversa la pianura Padana e la Francia. Il segmento, già misurato prima di Napoleone da Bordeaux fino a Fiume dagli astronomi francesi e austriaci, aveva lasciato da misurare il tratto alpino tra Chambéry e Torino, cosicché nel 1821 il governo Sardo-Piemontese e il governo del Lombardo-Veneto costituiscono una commissione paritetica di militari topografi e di astronomi. La parte austriaca è al comando del Barone von Welden, la parte piemontese è al comando del Barone Monthoux, il capo di stato maggiore dell’esercito sardo-piemontese. Essi, con una campagna di varie misurazioni, salgono alcune vette tra cui quella del Rocciamelone e prendono le misurazioni trigonometriche.

La Signal Kuppe, o punta Gnifetti, ha uno spuntone che si presta particolarmente a prendere la misura, come fosse un campanile, perché essa è visibile sia dall’osservatorio di Brera a Milano, sia dall’Osservatorio dell’Accademia delle Scienze di Torino, diretta dall’astronomo Giovanni Plana. 

Carlini a Milano e Plana a Torino (che elabora i dati raccolti sul Monte Rosa da Zumstein) sono gli astronomi che nel 1825 pubblicano dei panorami, una nuova cartografia e le misurazioni di questo arco di parallelo, opera scientifica all’interno della quale si inserisce il lavoro del Barone von Welden sul Monte Rosa. 

Quest’ultimo è a Torino a sedare i moti carbonari del 1821 (che hanno determinato l’abbandono del trono da parte di Vittorio Emanuele I, il quale ha abdicato a favore del fratello Carlo Felice che ha ristabilito l’ordine grazie a dei contingenti austriaci). A Torino, e quindi in Piemonte, il Barone von Welden ha l’opportunità di parlare in tedesco con gli abitanti di Gressoney e di Alagna, concependo l’idea di descrivere finalmente il massiccio del Monte Rosa. Ecco perché lui pubblica il suo libro nel 1824 a Vienna con una serie di panorami, visti dai quattro punti cardinali, e la cartina, molto dettagliata però ancora di non facile leggibilità perché non ci scrive sopra i nomi delle vette, ma soltanto delle sigle e dei numeri. 

Welden riesce finalmente a mostrare com’è fatta la catena del Monte Rosa, un problema rimasto in sospeso da 35 anni, dal viaggio compiuto da De Saussure poco dopo le prime ascensioni del Monte Bianco.

“A Torino […] Saussure riceve novità molto interessanti sul Monte Rosa dal conte Morozzo della Rocca, il presidente dell’Accademia delle Scienze che si è spinto ai piedi della grande montagna posta tra Piemonte e Svizzera per misurarla da vicino. È per questo che lo scienziato ginevrino che, oltre al grande massiccio dietro casa ha già esplorato l’Oberland Bernese, nell’estate 1789 compie con due guide di Chamonix un viaggio al Monte Rosa.”
[dal libro a cura di Pietro Crivellaro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa]

Saussure è quello che a suo modo svela il Monte Rosa all’Europa, ma in realtà gli gira molto al largo. Nel ’92 farà un ulteriore viaggio al Cervino, che è un approfondimento del viaggio al Monte Rosa, perché si rende conto che è un massiccio straordinario, ma poi rimane colpito dalla mole del Cervino e capisce che i suoi studi in alta quota fatti dopo aver salito il Monte Bianco sarebbero più agevoli se raggiungesse il Colle del Teodulo alla stessa quota del Colle del Gigante, quindi a 3300 metri, di più facile accesso.

Dunque, su suggerimento dal Conte Morozzo, Saussure compie il viaggio al Monte Rosa nel 1789 verso Macugnaga, il versante meno accessibile.

“Dopo aver visitato le miniere d’oro di Pestarena […] dall’Alpe Pedriola (2052 m) sale al Pizzo Bianco toccando forse l’anticima a quota 3180 metri. Dai suoi calcoli trigonometrici ricava che il Monte Rosa è solo 20 tese più basso del Monte Bianco. Alla moglie scrive anche di aver capito la ragione del nome, perché a suo parere l’enorme montagna sembra ‘esattamente a una comune rosa’.”
[dal libro a cura di Pietro Crivellaro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa]

Ma perché Rosa?

Il nome deriva dalla parola ‘ghiacciaio’ in valdostano, che si scrive ‘roisa’ o ‘ruiza’. E questo lo si scopre anche dall’antica cartografia, per cui Monte Rosa vuol dire monte dei ghiacciai

Ma ci sarebbero delle altre novità che a mio parere bisogna indagare sui cacciatori di camosci. Forse ho già avuto occasione di parlarle dei carabinieri?

Assolutamente sì.

Riparliamone anche a proposito del Monte Rosa, allora. Perché sul Monte Rosa abbiamo dei documenti all’archivio di Stato e alla Biblioteca Reale. Anche a metà ‘700 vengono descritte delle linee di difesa della Valle d’Aosta, che va difesa per evitare che il nemico, attraverso questa zona, invada il Piemonte e occupi Torino. La prima linea sta sul fronte del Monte Bianco, del Piccolo San Bernardo e del Col du Mont. Quest’ultimo sta alla testa della Valgrisenche ed è un colle alternativo al Piccolo San Bernardo, perché attraverso questo si scende nella Valle della Dora, ma poi all’altezza di Leverogne, un po’ prima, c’è una gola, una strozzatura che si chiama Pierre Taillé. Questo è un posto strategico militare, dove un pugno di uomini possono bloccare un esercito. Già i romani sapevano che la Valle d’Aosta si può difendere in questo modo: per questo ci sono ancora le tracce della strada romana, dove hanno scolpito la roccia per creare un passaggio stretto, che rimane tale fino all’unità d’Italia. Rimane perché di lì, se il nemico passa il Piccolo San Bernardo, in extremis forse è possibile bloccarlo. 

La gola di Bard è una strettoia molto simile, indubbiamente più famosa. Lì è successo che Napoleone, quando nel 1800 con un esercito di 40.000 uomini ha cercato di arrivare in Piemonte, è rimasto bloccato dal Forte di Bard, la strozzatura che ha impedito alle artiglierie di passare. Quel forte si è rivelato inespugnabile, perché i cannoni non potevano avvicinarsi e sparare all’interno per distruggerlo. 

Sulle carte militari segrete si mostra chiaramente che quello era un punto nevralgico. Ho trovato una cartina con le fortificazioni del 1745 e con le descrizioni dal Colle Bettaforca al Col de la Cou presso Bard, tra cui il Colle Ranzola, il più noto collegamento tra la valle di Challant e la valle di Gressoney. 

Cosa fa Napoleone nel 1800? Temendo un contrattacco da parte delle truppe austriache attraverso la Valsesia e la Valdobbia, attraverso Gressoney e il Colle Ranzola, spedisce un contingente del suo esercito (la Legione Italica, 2000 uomini italiani rifugiati in Francia che si sono arruolati con Napoleone per tornare a impadronirsi dell’Italia Cisalpina già occupata dai francesi nel 1798-99, poi sconfitti e tornati in Francia) e cerca di impadronirsi dell’Italia. 

Ecco che la grande storia ci dimostra come la piccola storia locale, delle montagne che difendono le valli intorno al Monte Rosa, viene esplorata e percorsa dalla Legion Italique tra il 22 e il 28 maggio del 1800. 

Agli ordini del generale Lecchi, bresciano, gli italiani attraversano il Col de Joux, salgono da Chatillon e Saint-Vincent, scendono a Brusson, salgono il Colle Ranzola, scendono a Gressoney e risalgono al Colle di Valdobbia, che è alto come il il Gran San Bernardo. 

Ho ricostruito il viaggio di questa Legion Italique per affermare che questa storia militare è una storia da tenere presente, anche perché i cacciatori di camosci saranno, come ho trovato nei manuali militari, le guide con l’uniforme di carabinieri a Aosta, le prime guide alpine e tiratori scelti che guideranno i reparti militari sardo-piemontesi nella difesa della Valle d’Aosta. 

Ecco un testo che mi appresto a scrivere con nuovi documenti per i 150 anni del Club Alpino di Gressoney, fondato nel 1875 da Quintino Sella, che aveva già fondato il Club Alpino a Torino, perché Gressoney era appendice del biellese. 

Ma mi faccia delle domande anche lei, prego!

Scusi, ero incantata dalla storia e forse, lo ammetto, mi trovo un po’ smarrita tra le tantissime informazioni. Lei è andato proprio a indagare nei dettagli: il suo lavoro di ricerca è davvero ammirevole.
Quanto conta per la storia dell’alpinismo tutto questo?

L’alpinismo nasce pienamente a metà ‘800. Possiamo dire che comincia a nascere con la prima ascensione del Monte Bianco, a fine Settecento. Ne abbiamo parlato nella precedente intervista.

Le ripetizioni delle ascensioni del Monte Bianco determinano una progressione accelerata che a metà ‘800 fa moltiplicare le scalate del Monte Bianco, facendo nascere così l’alpinismo, cioè la gara a chi arriva prima in vetta alle montagne come diletto, come prodezza sportiva, come impresa, chiamiamola come vogliamo.

Quindi l’alpinismo vero e proprio possiamo ammettere che nasce a fine ‘700, ma matura progressivamente e si manifesta pienamente a metà ‘800. In precedenza ci sono imprese, episodi, scoperte, un allargamento dell’orizzonte dell’esperienza, di conoscenza delle Alpi inesplorate, che vengono salite come prodezza alpinistica. 

In precedenza erano spesso salite per un’altra ragione.

Obiettivi militari o commerciali…

Pratici o anche per orgoglio. La punta Zumstein viene salita per orgoglio, ma anche per altre ragioni, come per incarico dell’Accademia delle Scienze e per misurare la topografia militare. 

Il Conte Luigi Francesetti sale sulla Rocciamelone, dove trova i militari austriaci che eseguono misurazioni nel 1821-22, perché è indispensabile per realizzare delle carte geometricamente precise, esatte. Quindi la topografia è un aspetto fondamentale per spiegare l’alpinismo.

Ma non dimentichiamoci della caccia ai camosci, che, oltre al commercio e al militare, è fondamentale perché i cacciatori sono i primi esploratori delle Alpi inesplorate. Però non si può parlare di alpinismo.

Quindi non possiamo parlare di alpinismo neanche per quanto riguarda Annibale, ovviamente.

Annibale aveva degli obiettivi militari: ingaggia dei montanari per passare le Alpi dal punto più vantaggioso, che non sappiamo bene quale sia. Per passare in montagna ci vogliono i montanari più esperti di alta montagna. Sono loro che hanno l’esperienza.

Si può dire però che agli alpinisti fin dal principio sono servite le attività precedenti, come la topografia militare, la caccia ai camosci…

Sono indispensabili, anche se non sono da considerare alpinismo. 

L’alpinismo a metà ‘800 non nasce dal nulla: ha bisogno di una fase che possiamo chiamare pre-alpinismo, origini dell’alpinismo, e per convenzione stabilire che questo processo accelera dopo la prima ascensione del Monte Bianco.

C’è un’altra informazione. I sette gressonari salgono nel 1778, ma il Dôme du Goûter viene salito nel 1775 dal figlio della vedova Couteran, Jean Nicolas Couteran, con François Paccard, Michel Paccard e Victor Tissai. Sono questi quattro a fare il primo vero tentativo sui ghiacciai di Chamonix e si sono fermati sul Dôme du Goûter a 4304 metri. 

Qual era il loro obiettivo?

Volevano andare in vetta. Ma arrivare era molto più difficile e molto più lontano di quanto loro immaginassero. E poi, scottati dal sole e spaventati dalle distanze, alla fine sono tornati indietro, un po’ tutti malati. Non erano adeguatamente preparati ad affrontare gli alti ghiacciai.

Dunque, mi corregga se sbaglio: questo tentativo al Monte Bianco precede il viaggio di de Saussure, ma non coincide con la nascita dell’alpinismo, perché?

Perché il caso di de Saussure al Monte Bianco viene imitato immediatamente, ripetuto sistematicamente per una serie di anni. 

Graham Brown e Gavin de Beer, autori del libro La conquista del Monte Bianco. La vera storia della prima ascensione (1960), nella prefazione hanno scritto un capitoletto intitolato La nascita dello sport e hanno giustamente evidenziato che lo sport nasce dall’imitazione della prima scalata del Monte Bianco, che verrà progressivamente ripetuta di anno in anno tra il 1786 e il 1850 (il Monte Bianco verrà salito in quel periodo oltre 40 volte). E poi ancora più volte. Ciò significa che in molti lo fanno e allargano anche l’orizzonte verso nuovi obiettivi di cime e colli inesplorati, creste e nuove vie.

A proposito: nella storia del Monte Bianco ci ha rivelato i fatti contraddittori sulle guide di Chamonix. Ne esistono anche sul Monte Rosa?

Qui le guide non c’entrano nulla. Vincent non era guida. Ma esistono i cacciatori di camosci, e Zumstein è uno di loro. 

È talmente esperto che scrive all’Accademia delle Scienze di proibire la caccia agli stambecchi che stanno scomparendo. Ed è grazie a queste sue lettere, che ho pubblicato in questo libro (dal libro a cura di Pietro Crivellaro Cinque viaggi alle vette del Monte Rosa), che viene proibita la caccia degli stambecchi, i quali rimangono nella riserva del Re nella valle di Cogne. È grazie a Zumstein che vengono salvati gli stambecchi, altrimenti sarebbero spariti definitivamente. Questo bisogna riconoscerglielo. Gli stessi storici del Parco del Gran Paradiso non hanno saputo dirlo con chiarezza… probabilmente perché non hanno studiato a dovere le carte.

Questa intervista dimostra che invece anche le carte vanno studiate.

Lo sa? A me non dispiace parlare con lei, perché lei opportunamente coglie la novità del mio modo di raccontarle la storia.

La ringrazio. E a me piace ascoltarla!

Cacciatori di camosci, militari, guide alpine, alpinisti, scienziati, contrabbandieri: sono protagonisti di una storia reale, ma potremmo anche collocarli in un romanzo. Se l’autore fosse Pietro Crivellaro, potrebbe anche diventare un best seller.


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