Ho letto i loro nomi in diverse relazioni e oggi ho potuto finalmente rivolgere loro qualche domanda.
Sono Ivan Maghella e Marco Gnaccarini: due arrampicatori, alpinisti, ma soprattutto esploratori.
Esploratore… ho incontrato questo termine parecchie volte nelle mie interviste e oltre a rimandarmi a Indiana Jones, mi fa capire che l’avventura è scoperta, non dell’oro, ma di tante parti di un paradiso che abbiamo già qui, sulla Terra. Che si raggiunge salendo in alto, ma anche durante il tragitto e prima, nella ricerca.
Innanzitutto vorrei che vi presentaste, come piace a voi. Chi inizia?
Ivan: Eh, direi che siamo alpinisti della domenica, quelli che trovano lo spazio il sabato e la domenica in mezzo a mille cose da fare. Ho sempre cercato di fare quello che mi piace nell’arrampicata, di andare per la mia strada.
Ho iniziato ad arrampicare alla fine degli anni ’80, quindi ho vissuto l’evoluzione di quegli anni e ho notato come sono cambiate le cose.

E come ti senti?
Ivan: Diciamo che mi sento un po’ arrampicatore sportivo e un po’ alpinista, una via di mezzo. Ecco, posso dirti che mi definisco un alpinista di bassa quota, anche se a volte vado a scalare anche più su (ride, ndr).
Poi approfondiamo la via di mezzo, che è interessante. E tu, Marco?
Marco: Anch’io come Ivan sono un arrampicatore del weekend: tra il lavoro, la famiglia e altri impegni è difficile incastrare anche la scalata, ma faccio il possibile.
Da poco sono entrato nell’Accademico, ma sono anche istruttore nazionale e per questo gli impegni sono vari.
Comunque la fiamma alpinistica che uno ha dentro non va spenta, quindi qualche sogno ogni tanto bisogna realizzarlo, qualche sassolino dalla scarpa bisogna toglierselo, e quindi è giusto ritagliarsi lo spazio per le ripetizioni e l’apertura di vie nuove, che ho imparato grazie a Ivan.
Ivan: Devo dire che l’alpinismo non l’ho mai preso troppo sul serio: mi piace viverlo, divertirmi, ma senza essere troppo legato all’obiettivo. Arrampicare non deve essere un’imposizione.
Essere alpinisti della domenica, correggetemi se sbaglio, è un po’ una caratteristica di quello che è l’Accademico, giusto?
Ivan: Sì, è un po’ quello lo spirito dell’Accademico.

Ma quand’è che cambierà lo statuto e farete entrare le guide alpine?
Ivan: (Ride, ndr) Ne stanno parlando.
Marco: Eh, continuamente ne parlano…

Voi cosa ne pensate?
Ivan: Secondo me alcune guide lo meriterebbero: ho avuto soci di cordata forti che poi sono diventati guida, ma comunque avevano una passione esagerata per la montagna. Ed è per questo che secondo me alcuni potrebbero far parte dell’Accademico: perché è lo spirito che hanno ciò che conta. L’essere guida alpina viene dopo. Spesso essere guida non significa dedicare tanto tempo all’arrampicata, anzi.
Marco: Anche secondo me. Ed è necessario valutare ognuno: conoscerne la storia, il curriculum, come si sono approcciati alla montagna. Ci sono alpinisti che meriterebbero di entrare anche se sono guide.
Ivan: A mio parere per entrare nell’Accademico conta la passione, perché quando parli con un membro, solitamente senti questo: la passione che ha per l’ambiente della montagna, ne è proprio innamorato. Difficilmente senti parlare di prestazione, ma anzi senti la voglia di trasmettere l’amore per questa attività.

Passiamo all’apertura delle vie e dei tiri in falesia: dietro c’è un grande lavoro ed è difficile trovare una persona che abbia il tempo e la voglia di chiodare. Quindi chiedo a Marco di raccontarmi la sua affermazione “ho imparato da Ivan”.
Marco: Io ho conosciuto Ivan nel 2010 circa, ma per la fama sapevo già chi fosse. Nel 2012 ricordo che volevo aprire una via, però non trovavo nessuno con cui farlo per imparare e allora l’ho chiesto a Ivan, e lui ha accettato. Da lì sono iniziate le nostre avventure di esplorazione e apertura. Lui mi ha insegnato come approcciarmi alla parete, come farmi l’occhio per cercare le vie, come chiodare, l’etica da rispettare in base al tipo di via che si vuole aprire…

Ti ricordi un aneddoto?
Marco: Sì, tra i tanti… Ricordo che un giorno eravamo sul Monte Pizzocolo: stavo finendo di aprire un tiro impegnativo di una via, sono arrivato su una cengia stremato dopo un’ora e mezza passata a trapanare, stavo per attrezzare la sosta quando ho sentito puzza di carogna. Guardo meglio e vedo che da un buco escono delle zampe: c’era un aquilotto! Mi sono detto ‘se arriva la mamma sono fregato’. In fretta e furia ho attrezzato la sosta e mi sono fatto calare velocemente. Ce ne siamo andati, per poi tornare dopo 15 giorni a finire la via, che abbiamo chiamato Anima Selvaggia, per questo incontro ravvicinato.

E Ivan, che mi dici sul tuo modo di aprire, sui tuoi principi?
Ivan: Io sono uno che non ha mai preso troppo sul serio l’alpinismo: ho aperto alcune vie in stile classico in montagna, dove in diversi ambienti è bello aprire con i chiodi. A bassa quota, e io mi definisco più un alpinista di bassa quota, se ci sono linee che si prestano per essere salite a chiodi, cerco di usare i chiodi il più possibile, ma se invece vedo che la linea si presta a uno stile sportivo, apro con gli spit, ma magari cerco di lasciare le fessure libere per le protezioni veloci.
Certo è che non mi è mai piaciuto rischiare più di tanto in apertura, quindi quando salgo, cerco di farlo proteggendomi.
Posso dirti che ho sempre cercato di attrezzare bene le mie vie, perché dà anche soddisfazione quando la gente va a ripeterle. Qualche mia via c’è con pochissime ripetizioni, ma è la minor parte.
La prima via che ho aperto risale al ’92, a chiodi. Poi i tempi sono cambiati. Mi ricordo anni fa quando aveva aperto le sue prime viette sportive Eugenio Ciprani in Dolomiti: putiferio! Una polemica infinita su come si aprivano le vie da parte dei Gardenesi e di tutto l’ambiente alpinistico. Poi con gli anni le cose sono cambiate e anche loro hanno aperto con gli spit.
Io non sono mai stato un talebano sull’etica di apertura: ognuno è giusto che faccia quello che si sente, sempre nel rispetto di quello che c’è già.

Marco, tu porti avanti questa linea di Ivan o l’hai modificata a modo tuo?
Marco: No, mantengo questa linea: l’obiettivo è cercare di aprire a chiodi o lasciare una fessura libera a friend. Poi, dove serve, si mettono gli spit. Le soste però, a mio parere, devono essere sempre a prova di bomba. Ma anche lì dipende dalle linee, dall’ambiente dove si trovano. Alcune vie le abbiamo aperte appositamente solo sportive per cercare di spingere un po’ più le ripetizioni, passando dove c’è la roccia più pulita…

Ivan: Ho visto sul tuo sito che sei andata a ripetere Birbanti al Pastello. Abbiamo appositamente chiodato quella e un’altra via sportive, con protezioni posizionate in modo che l’impegno nel salirla fosse limitato. Le abbiamo aperte dall’alto.

Urca, qualcuno ti avrebbe puntato un dito contro urlando ‘sacrilegio!’.
Ivan: (Ride, ndr) I miei miti erano nel Verdon, che è stato per un periodo un po’ la mia seconda casa e ci si calava dall’alto per salire le vie.
Sul Colodri Manolo e Bassi hanno aperto Zanzara e labbra d’oro dall’alto ed era stato accettato. Ma certamente ci sono posti dove aprire dall’alto non ci sta proprio, come sulla Nord del Civetta o in Marmolada, ad esempio.
È sempre necessario rispettare il luogo.

Quindi possiamo dire che voi siete per la libertà di espressione nell’alpinismo, ma alcuni paletti ve li mettete.
Marco: Il rispetto è fondamentale, soprattutto in relazione alle linee di altri.
Ivan: Prima di aprire una via sono sempre andato a ripetere le vie che c’erano sulla parete, per capire se andavo a incrociarne qualcuna, ad esempio.

Abbiamo capito chi è il mentore di Marco, ma il tuo, Ivan?
Ivan: Io sono stato ispirato da Patrick Edlinger, che ho avuto la fortuna di conoscere.

Ho iniziato ad arrampicare con dei ragazzi del mio paesino e avevamo due libri, tra cui le 100 più belle ascensioni ed escursioni di Buscaini. Lì ricordo che c’erano la via Philipp-Flamm, il diedro Casarotto al Lagunaz… Per me riuscire a salire quelle vie era un sogno e l’ho realizzato.

Mi hanno ispirato anche alpinisti come Messner, De Tassis, Vinatzer… Ma a me quello che interessa maggiormente è esplorare una parete, posti dove non sono mai stato, anche se poi ne escono vie di quarto o quinto grado.
Salire vie bellissime e difficili come Tempi moderni o il Pesce in Marmolada è fantastico, però alla fine spesso si rischia che diventi una rincorsa.
L’emozione che provi la prima volta che vai su una parete dove non sei mai stato, secondo me, è unica.
Quello che a mio parere tanta gente dovrebbe fare adesso non è rincorrere la prestazione, ma esplorare.

Marco: Sì, forse per noi la volontà di esplorare nuovi orizzonti è facilitata dal fatto che siamo abbastanza lontani dalle montagne e quindi, abitando in pianura, siamo un po’ più aperti a muoverci, a fare tanti chilometri per andare in montagna. Abbiamo amici trentini che non si muovono dal Trentino, o forse vanno in Val d’Adige ogni tanto.
Ivan: Spesso la gente si ferma nei soliti posti e non va a scoprire quelli un po’ defilati, magari perché hanno la domenica libera e devono ‘portare a casa qualcosa’.
Quando si va a esplorare, ad aprire una via, tante volte non si porta a casa niente, se non una gran faticata.
Ma noi più che alpinisti da ripetizione, siamo alpinisti da esplorazione!

Tu, Ivan, hai detto che sei un po’ una via di mezzo, perché hai iniziato a scalare quando stava iniziando l’arrampicata sportiva…
Ivan: Sì, giusto. Ho iniziato nel 1988-89, era stato già tracciato un piccolo percorso di arrampicata sportiva, l’epoca d’oro di Manolo, di Bassi, ma di falesie ce n’erano ancora poche.

Vorrei conoscere il vostro punto di vista rispetto all’evoluzione dell’arrampicata e dell’alpinismo: quali sono, secondo voi, gli aspetti più rilevanti, quelli più evidenti, e come vedete il futuro dell’alpinismo proprio sulla base di questa evoluzione?
Marco: Io ho iniziato a scalare nel 2000, ma ancora era visibile il cambiamento. Un elemento che sicuramente salta di più all’occhio è che una volta facevi la coda in montagna sotto tutte le vie, vedevi cordate ovunque. Adesso spesso c’è pochissima gente che scala, soprattutto su determinate salite. Ci sono dei weekend bellissimi dove magari in Brenta non vedi nessuno.
Ci sono parecchie vie poco ripetute, quindi a mio parere c’è un po’ meno gente che va a scalare (in via) e molta di più, soprattutto negli ultimi anni dopo il Covid, che va a camminare e che spesso ha come obiettivo arrivare al rifugio, mangiare, bere, magari ubriacarsi, e poi tornare a casa.
Oggi per tanti anche questo è andare in montagna. E cosa ha portato? Prezzi esorbitanti dei rifugi, che aumentano senza tanta logica… Quindi anche i giovani fanno fatica ad approcciarsi al mondo dell’alpinismo puro, dell’andare in montagna per passione, per stare a contatto con la natura. Probabilmente ci sono un po’ meno esempi da seguire.
Ma ragazzi che vanno a ripetere vie classiche, che aprono, che sono davvero appassionati, ce ne sono e va detto.
Ecco, secondo me, ad esempio, uno dei parametri che sarà sempre più difficile portare avanti è l’utilizzo del chiodo, perché praticamente tra un po’ non ce ne saranno più: già la Black Diamond ha smesso di produrre alcune serie di chiodi, perché non riesce a venderli, e penso che in futuro si arriverà a chiudere la produzione. Non hanno più interesse a vendere i chiodi perché nessuno li compra, se non pochi. Lo spit li sostituirà definitivamente.
Questo cosa porta? Che devi farteli da solo: chiodi artigianali con i pro e contro, con i dubbi sulla tenuta e sulla durata, senza certificazioni…

Dunque, Marco, dici che utilizzeremo solo spit?
Marco: È probabile, ma nell’ottica che sta prendendo piede nell’ultimo periodo: utilizzarne pochi, dove servono, e lasciare la libertà di utilizzare friend e altre protezioni veloci. Quindi penso che il trend futuro sarà questo.
Vie alpinistiche con solo chiodi ne apriranno, ma sempre meno a mio parere.

E parlando di esplorazione?
Ivan: Negli ultimi anni ce n’è stata di esplorazione. Lo vedo anche nelle tue zone del Vicentino: trovare ancora qualche metro libero di roccia sulle Piccole Dolomiti è una bella impresa, ma c’è chi ci riesce. Anche nelle Dolomiti, sulle cime principali, devi tirarti fuori dei corridoi, ma è sempre più dura. Devi defilarti. E comunque sarà sempre più difficile trovare linee di un certo spessore.
Anche la Valle del Sarca ormai è satura. Io lì ho avuto fortuna negli anni ’90: dove abbiamo aperto le prime vie non c’era niente, a parte le classiche. Dopo sono arrivati Diego Filippi, Grill e altri. Su alcune pareti, come sulle Coste dell’Anglone, non c’era una via o in Mandrea ce n’erano poche, come al Casale o al Dain… Ora la Valle del Sarca non la guardo più, se voglio aprire una via di un certo spessore.
Oggi i forti puntano alle pareti fuori dall’Europa, come in Africa, in Groenlandia…
Oppure si troveranno linee in Marmolada o altre pareti delle Alpi da proteggere a spit con gradi molto alti.
I giovani devono cercare di trovarsi i loro spazi, perché adesso escono dalle palestre fortissimi, hanno un potenziale enorme e hanno i mezzi che noi non avevamo prima, conoscenza dei materiali e dei posti attraverso internet e tutto quello che il web offre oltre alle guide.

Questi giovani in parte li state valorizzando anche voi con l’Eagle Team, giusto?
Ivan: È notevole l’impegno del CAAI per avvicinare ancora di più giovani appassionati all’ambiente e all’alpinismo.
Marco: Io ho partecipato nella formazione sulle manovre, l’autosoccorso… poi per la parte pratica c’è il gruppo degli organizzatori con le guide alpine, gente di livelli altissimi.
L’Eagle Team è un progetto che ha come scopo quello di far crescere dei ragazzi giovani e proiettarli nell’alpinismo di un certo livello a 360 gradi, far capire loro il potenziale che hanno, dove possono arrivare, anche con l’esplorazione e l’apertura di vie nuove fuori dall’Europa.

Leggende metropolitane narrano che non ci sono, o almeno non c’erano, bei rapporti tra le guide alpine e il CAI…
Ivan: C’è qualche guida alpina che ci definisce degli abusivi perché gli rubiamo i clienti con i nostri corsi, capita. Sai, purtroppo quando subentra il denaro, quando diventa un lavoro, le cose un po’ cambiano…
Marco: Suppongo che un leggero astio tra guide e CAI ci sarà sempre, perché per alcune guide c’è l’interesse economico che non ha il CAI. Chi lo fa di professione a volte non vorrebbe che altri portassero in montagna le persone. Ma ci sono anche altre associazioni, diverse dal CAI, che si sono evolute e hanno preso piede in tutte le discipline relative alla montagna, quindi le guide sono spesso arrivate a litigare un po’ con tutti (ride, ndr).

Ammetto che sono stata un po’ sorpresa nel vedere il CAAI collaborare con le guide a quello che è, lo sottolineo, un bellissimo progetto. Insomma, ammettiamolo, molti di questi ragazzi già vogliono o vorranno diventare guide, e se il CAAI non ammette guide…
Ivan: Sì, nell’alpinismo vedo molti ragazzi rispetto a una volta puntare a farlo come lavoro. Vogliono diventare guida.
Marco: Però io penso che quando la passione diventa lavoro, quella passione un po’ svanisce.
Ivan: Io sono stato parecchie volte a riattrezzare tiri in falesie e come ricompensa non ho voluto nulla. Una guida pretende la retribuzione. Qui come la mettiamo?

Ecco un altro argomento piccante: per riattrezzare le falesie ci vuole la guida alpina o può farlo anche il CAI?
Marco: Dipende se devi certificare il lavoro o no. E oggi serve certificare il lavoro in alcuni luoghi. Dipende dal Comune, da dove chiodi, dai proprietari del terreno… Nella nostra zona, Bresciano e Val d’Adige, non c’è mai stata nessuna richiesta da parte dei Comuni per avere certificazioni delle falesie. Ad Arco sì e per farsi certificare, hanno chiamato le guide alpine. Però la guida non è l’unico professionista che può certificare. Ci può essere anche un ingegnere, un geologo…

Si andrà verso una certificazione delle falesie ovunque, secondo voi?
Marco: Secondo me no.
Ivan: No, no. Sarebbe impegnativo: ha un costo elevato, ci vuole tempo e se un Comune volesse certificare una falesia, deve avere garanzie, controllare, mantenere la certificazione anche dei materiali utilizzati, avere un geologo che ti certifichi che non cade nulla dall’alto. Non è semplice.
Voi avete chiodato diversi tiri di varie falesie: lo fate per passione, per fare arrampicare gli altri, per puro orgoglio personale…
Marco: Per tutto questo, però se è un posto che merita, che ha potenziale, allora si chioda bene per tutti.
Ivan: Se uno apre tiri in falesia è anche un po’ per crearsi un giocattolo personale, diciamolo! (Ride, ndr)
Marco: Lo stimolo è scoprire un posto nuovo dove provare a liberare i tiri, e trovare delle belle linee per se stessi, soprattutto.
Ivan: A me piace chiodare solo delle linee che intuisco arrampicabili. Se devo forzare la salita, magari con scavati e resina, allora preferisco ritirarmi e lasciare ai più forti la strada.
Diversi sono i fruitori delle falesie: abbiamo alpinisti, atleti, arrampicatori della domenica, appassionati di diversi livelli… Qual è il vostro approccio all’arrampicata sportiva in falesia e com’è cambiato nel tempo, se è cambiato? E poi vorrei sapere quale sarà secondo voi il futuro delle falesie.
Ivan: Un alpinista in falesia lo riconosco subito, perché è uno di quelli che non si lamenta mai se trova il sassolino che si muove, se la via è sporca… Ti arriva il falesista puro è non c’è niente che va bene.
Secondo me ci vuole una via di mezzo. Certo al giorno d’oggi una falesia frequentata ha certi standard e necessita di manutenzione, altrimenti ti crei una falesietta dove vai solo tu e fai quello che vuoi. Dal mio punto di vista ti dico che una cosa è certa: in falesia non si va per rischiare.
Marco: Quando vai in falesia, lo fai per passare una bella giornata con gli amici. Ci sta anche l’ingaggio, ma non puoi andare a farti male in falesia. Per quanto riguarda la privatizzazione, secondo me sarebbe meglio che restassero libere.
Se imponi delle regole, si devono far rispettare e questo non è semplice: casco, distanza tra gli spit, certificazioni…
A mio parere non dovrebbero esserci obblighi particolari, ma linee guida di buon senso da seguire, come quelle scritte dal CAI e dalle Guide Alpine.
Però è anche vero che in certe falesie inizia a esserci davvero tanta gente, il problema di Lumignano, ad esempio, è questo.
E ce ne sarà sempre di più…
Marco: Non sono mai state regolamentate le falesie. Ci sono solo delle linee guida di chiodatura di CAI/Guide Alpine ed è giusto che rimanga la libertà per chi chioda. Al CAI insegniamo anche a chiodare nei corsi, sia regionali sia nazionali, e chiodiamo insieme ai ragazzi delle vie per spiegare come si fa, l’approccio, come trovare una falesia, il disgaggio, come e dove attrezzare la sosta… quindi oggi secondo me chi inizia a chiodare lo fa con un po’ di conoscenza, perlomeno.
Quando poi parliamo dei proprietari dei terreni, si entra in un campo minato.
Ma basterebbe semplicemente il buon senso dell’arrampicatore e questo tanti che escono dalla palestra spesso non ce l’hanno: quindi si va in massa in falesia, si porta la musica, si fa casino e si sta poco attenti, anche nella salita.
Qui servirebbe l’ottica alpinistica di cui parlava Ivan, oltre al buon senso, appunto, e un minimo di formazione.
Ivan: E conoscere il potenziale pericolo vale soprattutto per non farsi male, per evitare certi infortuni.
La maggior parte delle volte hai più probabilità di farti male cadendo su salite facili e purtroppo sono proprio quei tiri e quelle falesie a essere più frequentate: per questo devono essere quelle chiodate meglio. È lì che c’è il reale pericolo di sbattere sulla cengia o su un pilastrino.
E chi fa l’8b e deve chiodare i tiri facili, deve avere l’occhio ed entrare nella prospettiva di chi fa il 6a.
Marco: Sì, questo è fondamentale. E soprattutto il fruitore deve capire quello che ha davanti, se quella falesia o quel tiro vanno bene per lui.
La massa sta aumentando sempre di più e il trend è in crescita: questo porterà sicuramente a un sovraffollamento delle falesie e purtroppo più incidenti.

Cosa consigliereste ai ragazzi che escono dalla palestra e vogliono approcciarsi alla falesia e magari alla montagna, al mondo dell’alpinismo? Qual è il vostro suggerimento, anche da istruttori?
Marco: Consiglio di seguire dei corsi, perché nelle palestre impari pochissimo. È necessario informare dei pericoli oggettivi presenti in ambiente. I corsi possono essere del CAI, con le guide alpine o altri.
E poi ci vuole gradualità, consapevolezza del proprio limite. Una persona deve sapere quello che sta facendo.
Ivan: E la consapevolezza vale per tutto: il pericolo c’è anche sul sentiero di avvicinamento o di rientro. Ci vuole esperienza, non bisogna avere fretta, ma salire per gradi.
Io ho iniziato ad arrampicare a 18 anni: in Vespa con un mio amico del paese andavamo già a salire vie al Colodri il primo anno che arrampicavamo, e anche in Medale a Lecco. Ma poi ho voluto frequentare un corso, per capire quello che stavamo facendo. Abbiamo iniziato a salire le prime vie di terzo e di quarto grado in Dolomiti, anche se arrampicavamo già su vie di VI in Valle del Sarca, ma sapevamo che né l’ambiente né la chiodatura erano gli stessi.
E poi bisogna conoscere un po’ la storia dell’alpinismo: uno dovrebbe informarsi.
Io faccio parte di una generazione cresciuta con i libri in mano, internet è arrivata dopo, quindi le ossa ce le siam fatte anche sui libri, sulle relazioni stampate. Non avevamo le mille informazioni di oggi.
Per questo restavamo su gradi molto più bassi, perché in via dovevamo essere in grado di gestire ogni evenienza. Non c’erano neanche i telefoni per chiamare.
Marco: L’esperienza in montagna la fai a forza di andare. Ti formi l’intuito, comprendi la logica dell’apertura, impari a stare nell’ambiente della montagna.
Sappiamo bene che l’alpinismo non è uno sport e vorrei sapere da voi, secondo voi, cos’è e perché di solito non si riesce a smettere di praticarlo.
Marco: La montagna e l’alpinismo riescono a metterti a nudo, devi metterci la faccia e arrivi in cima se ci arrivi con le tue gambe, non puoi barare. Se non riesci, torni indietro. Questo a mio parere è uno degli aspetti più belli.
Dell’arrampicata il bello è avere la mano che tiene l’appiglio, riuscire a mantenere la mente sveglia per ragionare su quello che si sta facendo.
Ed è importante imparare anche a saper tornare indietro, perché la ritirata è fondamentale e bisogna sapere quando farlo.
Non si riesce a smettere perché si vedono dei posti bellissimi. Il gesto arrampicatorio è affascinante. Le esperienza sono sempre diverse. Tutto è emozionante, adrenalinico.
A volte hai paura e devi gestire queste emozioni, ma l’arrampicata, l’alpinismo, la montagna ti permettono di sognare sempre cose nuove. Ecco perché non si vuole smettere.
C’è chi smette, magari dopo anni, e non so come fa. Secondo me una passione che cresce pian piano e poi diventa grande è giusto tenerla in vita.
Ivan: Secondo me… Sai, noi uomini siamo degli eterni bambini (ride, ndr), quindi abbiamo sempre voglia di giocare e poi non si riesce a smettere, perché, come diceva Marco, arrampicare, andare in montagna ti porta a volere vedere posti nuovi ed è difficile farne a meno.
A mio parere uno che lo fa veramente per passione difficilmente smette, perché ha sempre il bisogno di guardare avanti e provare le sensazioni che questa attività ti fa provare. Invece chi lo fa solo per gli altri o per una realizzazione personale, molto probabilmente smette, secondo me, perché se leghi questa attività al solo dimostrare qualcosa agli altri, nel momento in cui non riuscirai più a fare quella cosa il tuo scopo svanisce e ti dedichi ad altro.
E comunque uno non deve solo arrampicare per tutta la vita: c’è anche molto altro da fare e a cui pensare!
Ditemi: voi riconoscereste un arrampicatore in un ambiente diverso da palestra, falesia, montagna…
Ivan: Ricordo una volta un bambino che ha detto “quelli sono arrampicatori, quei vecchi là vestiti da giovani!” (ride, ndr). Ma generalmente, sì, li riconosci.

Dunque voi non smetterete?
Marco: Io spero di no.
Ivan: Anche io spero di no. Insomma, qualcosina da fare c’è sempre, dai!
E a me piace proprio stare nell’ambiente, al di là della prestazione.
Le cose importanti che dovevo fare bene o male le ho fatte, non penso che tornerò tutti i weekend in montagna. Ma lasciarla? Mai!
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