Parlare con Manrico è stata una gran fortuna: senza giri di parole anche lui mi ha raccontato la sua visione dell’alpinismo e come mi è successo in altre interviste, è stato illuminante. Le scalate si sa, sono eccezionali e ormai famose, ma il pensiero di chi le fa, il punto di vista, la passione percepita nell’enfasi delle parole… tutti questi elementi valgono più delle prestazioni. È come leggere l’anima. E gli alpinisti, anche loro, sì, un’anima ce l’hanno. Un po’ folle, ma pur sempre affascinante.
Ciao Manrico. Inizio subito chiedendoti di presentarti: come ti definisci in ambito alpino?
Ah, io mi definisco un alpinista, perché penso di essere un alpinista e non un arrampicatore: un ‘alpinista dolomitico’, ecco, mettiamola così.
In questo universo ognuno ha la sua opinione ed è proprio questo il bello, sotto certi aspetti. Quindi ti chiedo di spiegarmi qual è secondo te la differenza tra arrampicatore e alpinista…
L’arrampicatore è quello che punta maggiormente sul fattore tecnico dell’arrampicata. Certo ci sono anche tanti alpinisti che sono degli arrampicatori, quelli più bravi. Io non sono mai stato un arrampicatore, nel senso che non ho mai dedicato tanto tempo alla falesia, all’allenamento, ai gradi.
Ho raggiunto il 7c negli anni ’90, quando ero più allenato, però è stato sempre un raggiungere il grado senza troppi sforzi, senza essere un fanatico dell’arrampicata, senza stress.
Io tutto quello che ho fatto alpinisticamente, ma non solo, ho cercato di raggiungerlo col minimo dello stress. Con fatica, con impegno, certo, ma quando mi sono accorto che diventava uno stress, una specie di droga e quasi un obbligo, anche se solo morale, io ho mollato e sono tornato al concetto che nella vita bisogna fare le cose perché piacciono, non solo per dovere o per obbligo.
Penso che molte persone le proprie catene se le creino, se le inventino. E io non mi sono mai fatto incatenare, nemmeno dall’arrampicata e dall’alpinismo.
Forse è per questo che non sono mai stato uno ‘bravo’.
Per favore definiscimi ‘obbligo morale’.
Eh, l’obbligo morale è quando ci si mette in quelle condizioni per cui se c’è una bella giornata, ti dispiace stare a casa e stai male se stai a letto fino alle 11 perché sei stanco.
Anch’io ho qualche obbligo morale di questo genere, però cerco sempre di limitarli e quando vedo che ne sono vittima, cerco di ribellarmi.
L’obbligo morale è sentirsi costretti a fare delle cose che alla fine non sono imposte da nessuno, ma solo dai noi stessi.
Mi viene in mente l’articolo di Gian Piero Motti I falliti: possiamo dire che l’obbligo morale ti porta a essere un ‘fallito’?
L’ho letto I falliti, tanti anni fa, e diciamo che lui ha un po’ esagerato con questo concetto fino a farsi prendere completamente: anche se da un lato voleva liberarsene, come sto dicendo io adesso, si è fatto travolgere tanto da arrivare al punto in cui è arrivato (il suicidio, ndr). Sì, direi che sicuramente il difetto di Gian Piero Motti, come quello di tanti altri, è stato quello di essersi fatto prendere troppo da quelli che sono obblighi di natura morale, non da imposizioni di qualcuno o della società.
Lo ripeto, gli obblighi morali sono catene che ci vogliamo mettere noi.
Se è successo, come sei cambiato nel tempo da alpinista?
Sicuramente il mio tipo di alpinismo è stato pulito. Puro dal punto di vista etico.
Alcune catene morali me le ero messe anche io, ma da queste pian piano mi sto divincolando.
Ad esempio?
Il fatto di usare pochissimi chiodi e non usare gli spit. Io non ho mai piantato uno spit col trapano in vita mia, però adesso sul Phandambiri in Mozambico li abbiamo usati e ammetto che facendolo mi sono un po’ liberato da quella convinzione di non perforare assolutamente la roccia.
Sì, forse sono cambiato in quel senso, perché una volta ero abbastanza talebano su certi principi: ero convinto della mia idea di purezza nell’arrampicata. Adesso, forse un po’ per la vecchiaia e un po’ per la paura, qualcosa è cambiato.
Una volta il mio alpinismo era improntato anche sul rischio (che poi se uno è allenato bene, non è che rischi più di tanto), ho arrampicato parecchie volte slegato, se mi trovo gli spit a parer mio troppo ravvicinati, ne salto, se sono sulle mie difficoltà in montagna pianto un chiodo a tiro o neanche. E sono consapevole che quando arrampico, quella mia parte un po’ talebana esce.
La vecchiaia e il buon senso, però, mi stanno portando a mettere un friend o un chiodo in più e passare i rinvii dove ci sono gli spit… In questo senso sono cambiato.
Qualcuno dice che sono involuto. Io dico che mi sono un po’ evoluto. Qualcuno dice anche che sono tornato indietro e mi sto rimbambendo.
Sono punti di vista, il mondo è bello perché vario. Senti, Manrico, ti sei mai trovato in disaccordo con qualcuno sull’etica della scalata o dell’apertura, ad esempio?
L’alpinismo dovrebbe essere un’attività libera: metterci tanti freni o tanti limiti a parer mio è un paradosso.
Io adesso sono arrivato alla conclusione che ognuno arrampica come vuole, come gli pare. Ciò che importa è che non vada a invadere o spittare le vie degli altri, perché qui entra in gioco il rispetto per una via, per una parete e per il chiodatore.
So che ti sei ‘specializzato’ anche nell’arrampicata veloce, è corretto?
Sì, sia incordata, sia in solitaria.
Perché questa scelta?
Alcune scelte non sono mai davvero scelte: penso che a ognuno piace automaticamente quello che sa fare meglio. Non è che uno scelga di diventare tennista: se ti viene bene e ti piace, tendi a fare quell’attività. Anche perché quando le cose riescono automaticamente, diventano più interessanti e simpatiche da fare.
Per me arrampicare veloce non significava correre in parete: io arrampicavo e basta. Solo che invece di rinviare, non lo facevo, invece di avere un compagno di cordata, andavo spesso da solo.
Con il mio compagno di cordata storico Alcide Prati mi trovavo bene, ci capivamo, anche se ci parlavamo ben poco in parete. Non discutevamo sulla corda, se doveva bastare, o se il chiodo dovesse essere uno in più o uno in meno, o se la sosta era più lontana o più vicina. Non c’era nessun urlo tra di noi, niente ‘molla’, ‘tira’, ‘vado’…
Noi arrampicavamo e ci capivamo al volo. Scalare con Alcide era quasi come arrampicare da solo. Non ho mai sentito con lui il ‘peso’ del secondo di cordata, anzi, era un aiuto, perché è un amico.
Fin da giovane a me piaceva tanto arrampicare, però quando lo facevo, io volevo arrivare in cima e fine: tutto quello che c’era in mezzo a me piaceva farlo velocemente, ma non perché volessi ridurre il tempo dell’arrampicata.
Negli anni ho avuto compagni che non stavano al mio passo in termini di velocità e scaltrezza nell’arrampicata. Poi, come ti ho detto, ho trovato Alcide negli anni ’90 e con lui sono riuscito a esprimermi al massimo.
Negli anni ’89, ’90, ’91, quelli migliori, avevo circa 30 anni. Salivamo in tempi davvero brevi, ma anche se qualcuno non ci crede, non lo facevamo per essere sul giornale o sulla rivista o perché ci facessero i complimenti. Per noi quello era il modo di arrampicare, ci piaceva e provavamo una grande soddisfazione nel farlo. A tutti piace il riconoscimento e non l’abbiamo mai rifiutato, però non era quello l’obiettivo.
(Tra i tanti, leggi l’articolo Manrico Dell’Agnola e il concatenamento Phlipp-Flamm e Solleder-Lattenbauer in un giorno)
E le solitarie?
Quelle le ho sempre fatte, ma senza mai dirlo a nessuno.
Quanto conta il coraggio nell’arrampicata veloce? Insomma, ci vuole un po’ di pelo sullo stomaco per saltare le protezioni…
Il coraggio sì, ci vuole, bisogna avere testa e secondo me ci si nasce con quella testa. Ed è ovvio che è necessario allenarla, arrampicando in quel modo, perché non si può simulare il pericolo, come invece si può simulare la difficoltà di un passaggio in falesia o con la corda dall’alto: quando si arrampica a vista e in velocità, lo si fa in un modo dove dopo i primi 10 metri l’errore è fatale.
Cosa ne pensi del free solo? Mi hai detto che hai arrampicato spesso slegato.
Il free solo è il modo più puro, più bello, più pulito di arrampicare. E secondo me anche quello che dà maggiore soddisfazione. Chiaramente bisogna essere all’altezza per farlo.
Per salire una via dura in falesia, basta andare e allenarsi, c’è la possibilità di provare.
Il free solo non si prova, devi farlo e devi avere la consapevolezza dei tuoi limiti, capire esattamente fin dove puoi arrivare, perché non hai possibilità di repliche.
Perché un alpinista sceglie di fare solitarie, secondo te?
Mi viene in mente Angelo Ursella (è considerato tra i più grandi ‘solitari’ del Friuli – famoso divenne il suo annuncio sulla rivista del CAI per cercare compagni di cordata, ndr). A quei tempi lui andava da solo perché non trovava compagni. E questo non è successo solo a lui, ma anche ad altri, con una grande passione per l’arrampicata, per la montagna.
Ma le solitarie sono spesso fatte assicurandosi. Nel free solo si è slegati e secondo me lo si fa perché fa sentire potenti, forti. Mi fa sentire un arrampicatore al 100%, senza compromessi. Essere leggeri, slegati, senza niente, su una grande parete, secondo me, per uno che ha passione, è l’apice dell’approccio alla montagna.
Hai ragione. E qual è stata la tua arrampicata da slegato che più ti è rimasta nel cuore?
Per la bellezza sicuramente la Philipp-Flamm slegato sulla Nord del Civetta. L’ho salita in due ore e 40 circa, se ricordo bene, perché allora non avevo neanche l’orologio: sono partito dal rifugio Tissi, sotto l’occhio attento del rifugista Nani Da Canal, che mi aveva cronometrato approssimativamente. Poi sono andato giù al Torrani e lì abbiamo fatto i conti dei tempi.
Anche in quell’occasione andai senza dirlo a nessuno, tranne un mio amico di Montebelluna, a cui ho chiesto di accompagnarmi fino al rifugio perché mi facesse da testimone e per darmi un’occhiata. Dormii in macchina, la mattina al rifugio Coldai mi feci una bella colazione e poi, quando l’aria cominciava a essere un po’ calda, partii.
Che rapporto hai con la solitudine?
Da un certo punto di vista mi piace. Ma se dovessi pensare a una vita da solo, no, questo mi fa paura.
In montagna anche da solo mi sento bene.
Ci sono persone che hanno paura di restare da soli con sé stessi…
No, io no. Ci sono persone che si addormentano con la televisione accesa o che quando sono a casa hanno sempre una radio o una televisione che impegna le orecchie e il cervello.
Io invece sto bene in silenzio. Il silenzio mi piace. Non ho paura dei miei pensieri.
Cosa è cambiato, secondo te, nell’animo degli alpinisti tra ieri e oggi?
È un po’ tutta questa società…
Questa società vuole proteggere, ti reputa quasi un criminale se rischi, deve sempre far ricadere la colpa su qualcuno… A me tutto questo sta sulle scatole: sono i sintomi di una società che sta andando veramente a rotoli.
E questa società, con le sue imposizioni, ha influenzato anche l’alpinismo. Di conseguenza si cerca la sicurezza, si pensa che una corda più bella sia più sicura, che i friend di un certo tipo siano migliori di altri, che il chiodo debba essere piantato lì e non là, che ogni 4 metri ci deve essere una protezione altrimenti guai… E secondo me questo ha rovinato lo spirito dell’alpinismo, almeno come lo concepisco io, e cioè che è la persona totalmente responsabile di quello che sta facendo.
Se cado e mi ammazzo, sono fatti miei.
Se dovesse capitarmi qualcosa, non ritengo un obbligo morale quello del soccorso di venirmi a salvare. Sono io che mi sono messo nelle rogne, quindi sarebbe giusto che sia io a tirarmene fuori.
Questa mentalità non c’è più.
Anche il dover andare in montagna con pala e sonda… è una cosa che mi sta altamente sulle scatole.
Una volta mi sono spaccato una gamba e all’ospedale ci sono arrivato con la mia macchina.
Secondo me la società ci ha messo un sacco di idee in testa che io ritengo assolutamente sbagliate e quindi è andata a svanire la responsabilità personale per quello che facciamo noi.
Io questo non lo accetto assolutamente.
Sembra che diventi la montagna la responsabile e non chi ci va…
Sì, anche quello. Negli anni abbiamo visto fin troppi titoli come ‘Montagna assassina’ o altre stupidaggini. A livello formativo delle persone ritengo sbagliate queste imposizioni della società.
Questo cambiamento interno all’alpinismo, al modo di vederlo e viverlo, perché un cambiamento c’è stato, secondo te è più un’involuzione o un’evoluzione?
Se parliamo di sicurezza relativa ai mezzi è un’evoluzione. Se parliamo di cervello, sicuramente è un’involuzione, perché tutta quella sicurezza ‘esterna’ della quale ci fidiamo, secondo me è inversamente proporzionale a quello che dovrebbe essere la nostra evoluzione interna, del nostro cervello.
Ognuno di noi dovrebbe avere un’idea più o meno chiara dei propri limiti, perché, ad esempio, quando uno arrampica slegato, deve avere quella percezione.
Io mi fido più del mio cervello che di un chiodo.

Faccio un po’ il Marzullo della situazione: secondo te è l’evoluzione dell’attrezzatura più sicura che ci rende più insicuri o è la nostra insicurezza che vuole i mezzi sempre più sicuri, le falesie sempre più sicure e altro?
Sicuramente una forma di insicurezza è quella di affidarsi a una sicurezza esterna, di pensare che la responsabilità sia sempre di qualcosa o di qualcun altro.
Le nostre paure, le nostre debolezze sono alimentate da una mentalità che si sta sviluppando, che vuole scaricare la responsabilità. E se uno scarica le responsabilità, chiaramente le proprie sicurezze vanno… a farsi benedire.
E per quanto riguarda l’attrezzatura più sicura di adesso: quella di 30 anni fa era sicura quanto quella di adesso! È l’utilizzo a essere cambiato. L’utilizzo sistematico di tutte queste cose che invece per noi in certi anni non era assolutamente scontato, perché, come dicevo prima, eravamo noi responsabili di noi stessi.
Rimpiangi qualcosa del passato?
No, non credo. Mah…
Poi magari ripensandoci bene, potrei anche rimpiangere qualcosa. Ma da come sono andate le cose, dire che non ho sbagliato niente sarebbe troppo presuntuoso, no?
È qualcosa su cui dovrei riflettere…
Ti racconto un fatto. Quando ero giovane, mi era stata prospettata la possibilità di entrare in finanza, nel gruppo sportivo. Mia moglie mi dice ancora ‘ah, se quella volta tu fossi entrato in finanza, adesso saresti in pensione, avresti arrampicato lo stesso, ma saresti stato pagato’. Siamo d’accordo su questo, però probabilmente sarebbe cambiata completamente la mia vita, non avrei fatto quello che ho fatto, non avrei conosciuto chi ho conosciuto, magari mi avrebbero sparato in un attentato, potrebbe essere tutto diverso. Quindi, secondo me, i se e i ma sono sempre delle cazzate. Non si sa come sarebbe potuta andare.
Quando facciamo queste considerazioni, pensiamo sempre a quello che avrebbe potuto migliorare la nostra vita. Non pensiamo mai alle scelte che non abbiamo fatto e che avrebbero potuto anche peggiorarla.
Hai ragione.
Quindi no, non ho rimpianti. E non li voglio avere.
Cosa ti lega così tanto alle Dolomiti?
Io sono nato ad Agordo e probabilmente ho anche avuto un imprinting dolomitico.
Anche i miei erano legati alle Dolomiti e io ho questa convinzione che anche il DNA ha un peso.
Di questo ne parla Domenico Rudatis su Liberazione: c’è la possibilità di ereditare i ricordi degli avi. Quindi, probabilmente, io ho ereditato qualche ricordo dai miei, che sono sicuramente dolomitici, perché le mie origini sono tra Agordo, Alleghe, Laste. Sì, penso di avere ereditato dei ricordi.
Quindi è stato questo che ti ha portato anche a scalare e a diventare alpinista?
Mi è sempre piaciuto scalare, fin da piccolo. Per quello sono convinto che c’è qualcosa nel mio DNA. Ho abitato a Montebelluna fino a quasi 30 anni, i miei non volevano che arrampicassi perché lo consideravano pericoloso, ma in compenso facevo gare di cross, correvo in moto, e ho rischiato molto.
Quando ho avuto la possibilità di muovermi da solo, di avere la macchina per andarmene in montagna, sono diventato alpinista. Ho iniziato ad arrampicare in montagna a 20 anni. C’era talmente tanta voglia di esprimermi in quel modo, che sono esploso subito e già dopo due anni avevo salito la Philipp-Flamm ed ero stato in America ad arrampicare su El Capitan…
A proposito di America: una domanda che ti volevo fare è proprio sulla tua esperienza oltreoceano. Tu hai realizzato anche prime italiane tra Yosemite e Colorado. Hai salito anche il Nose, è corretto?
Sì, l’ho salita nel 1981 con Lucio Bonaldo.
Ma dai, con Lucio Bonaldo?!
Lucio è potente, dovresti intervistarlo!
Non sei il primo a dirmelo e anche se so che è un’impresa ardua, mi impegnerò a realizzarla.
È un pazzo furioso, nel senso buono, però su diversi argomenti posso dirti che fa riflettere.
Immagino!
Senti, tu che aria hai respirato in America? Perché, insomma, dalle Dolomiti a El Capitan ne passa di acqua sotto i ponti!
La prima volta che siamo andati, abbiamo respirato l’aria di quegli anni, anche se poi noi eravamo talmente poveri, talmente fuori dal mazzo, che eravamo solo noi e le montagne. Erano gli anni in cui girava ancora Jim Bridwell per il Camp 4. Sarebbe stato bello viverlo in modo più sociale. Ma noi eravamo lì per arrampicare e basta. E Lucio… adesso è così, ma allora era anche peggio! Il rapporto con la gente non contava, lui era lì per arrampicare e lì abbiamo scalato, ci siamo accorti di quanto fosse duro il granito, specialmente quando ci voli sopra.
E lì hai provato anche l’artificiale?
L’ho provato la prima volta nel ’99 sulla via Zodiac (aperta in solitaria nel 1972 da Charlie Porter, è una storica big wall sulla parete sud-est, salita in libera prima di tutti da Thomas Huber e Alexander Huber nel 2003 e, subito dopo, da Tommy Caldwell, ndr).
Un po’ di anni dopo su Tangerine Trip e l’ultima via che ho salito è stata Mescalito, in 7 giorni con con Francesco Gherlenda.
È stata una bellissima esperienza.
Lì la parete la vivi intensamente, di certo meno che in Dolomiti, dove per diversi motivi i bivacchi si tende a evitarli quanto possibile.
Come hai vissuto, tu che sei un alpinista della velocità, l’esperienza di passare così tanto tempo in parete?
Devo dire che le vie in artificiale in Yosemite mi hanno permesso di fare questo grande viaggio verticale ed è stata un’esperienza bellissima.
Gli ultimi anni, quando siamo tornati, abbiamo salito anche vie più corte e più impegnative in libera. Così, con i limiti dovuti al fatto che in Dolomiti c’è la mia roccia e ci sono abituato, mi sono divertito anche sul granito a salire i primi tiri del Nose, i primi tiri della Salathé, tutti in arrampicata libera e veloce. Anche questo è stato molto interessante e divertente.
Che rapporto hai con il concetto di esplorazione della montagna? Quello che ti porta anche ad aprire vie, ad esempio.
Anche questo è un altro aspetto, un’altra fetta di questa grande torta.
Amo l’esplorazione: entrare in una valle dove sai che c’è stata pochissima gente, o addirittura nessuno, e hai davanti montagne, pareti, canaloni…
A me non piace molto camminare, ma in quei casi invece è incredibile come mi venga la voglia di salire, di attraversare, di guardare oltre. In queste situazioni non sento neanche più la fatica, perché c’è talmente tanta voglia di vedere, di capire, di esplorare… E poi in posti del genere l’arrampicata è l’apoteosi dell’esperienza.
È questo che ti ha portato anche alla professione che fai, di regista e fotografo?
La passione della fotografia è nata parallelamente all’alpinismo: arrampicando vedevo parecchi posti e il mio desiderio era ed è quello non di dimostrare ciò che faccio, ma di condividere l’esperienza.
E la parte visiva, chiaramente, è importante. Forse è anche una delle cose più facili da portarsi a casa. Quindi già sulle prime vie io portavo la mia macchina fotografica, prima quelle compatte, poi la mia Nikon e successivamente, quando diventai fotografo professionista, attrezzature più sofisticate.
La passione per la fotografia quindi è nata parallelamente al bisogno, al desiderio di condividere quello che vedevo, quello che facevo.

Cosa ne pensi degli ultimi anni, segnati da questi record, alcuni tendenti quasi al bizzarro? Record che pare vadano tanto di moda…
Penso siano sempre esistiti, ma con i social tutto si è un po’ amplificato e direi anche deformato. Adesso si sa tutto, però in realtà non si sa nulla.
Una volta con le riviste venivi a conoscenza di quello che dovevi sapere, perché chi pubblicava lo faceva con professionalità. Non come oggi che vengono pubblicate soprattutto nei social e sul web una fila di stupidaggini.
Quello che leggevi sulle riviste di solito aveva un valore.
Oggi secondo me tutti fanno e tutti pubblicano.
L’arrampicata è una passione che richiede fisico, testa, allenamento, capacità di affrontare il rischio. Ma ad esempio io non capisco quei record del ‘ho fatto questo con un occhio chiuso’ o ‘ho fatto quello con una mano dietro la schiena’… sto scherzando, ma c’è tanta gente che cerca di battere o inventare record che a mio parere non valgono niente.
Vorrei chiedere a queste persone: ‘se non ci fossero i social, lo fareste lo stesso?’.
Ti ho fatto esempi strampalati per non farti capire a chi o a cosa mi sto riferendo, ma…
Ho capito perfettamente.
Conosco persone che non valgono niente e vanno in televisione o sono elogiati come fautori di grandi imprese quando anni prima c’è chi ha fatto la stessa cosa ma non l’ha detto a nessuno, perché pensava che non valesse la pena di dirlo ad alcuno.
Ora esistono grandi imprese che valgono ben poco, ma essendoci dietro gli sponsor, ad esempio, allora diventano storiche.
Probabilmente le aziende dovrebbero capire a chi dare credibilità e a chi non darla. Invece spesso dipende solo da come uno la racconta.
Come lo vedi l’alpinismo del futuro?
Ah, io lo vedo più o meno come quello di adesso. Spero che non impongano delle regole, che non si debba arrampicare solo in un determinato modo e con un’attrezzatura selezionata. O che sia necessario un patentino per poter arrampicare…
Io il futuro dell’alpinismo così mi fa un po’ paura: non vorrei che arrivasse qualcuno, guide alpine comprese, a spingere per imporre delle regole che in alpinismo non dovrebbero proprio esistere.
Ai miei tempi ero un discreto arrampicatore e un buon alpinista. Adesso non è più possibile questo. Oggi devi essere al top come arrampicatore e al top come alpinista, se vuoi fare un’attività che abbia senso a livello comunicativo.
Se invece lo si fa per sé stessi, chiaramente ognuno fa quello che vuole: in questo caso uno che sale un IV grado può vivere la stessa emozione di Honnold che sale El Capitan. Capisci? Se ragioniamo in questo modo, tutto diventa più semplice e più logico.
Come mai non sei diventato guida alpina?
Eh, parlando con me, forse hai capito che sono abbastanza critico verso alcune imposizioni, verso certe regole. Sono sufficientemente anarchico nel mio modo di concepire la mia attività da non voler diventare guida.
E con le guide alpine non potrei mai andare d’accordo su tutto. Ho amici guide, ma su tante cose non non ci capiamo proprio.
Se dovessi fare un corso guida, mi manderebbero fuori a calci nel sedere alla prima via!
Oddio, non è che poi le guide alpine siano così fiscali nelle salite, così attente a tutto…
Loro sono convinte di essere attente a tutto, precisi, infallibili. E invece anche loro sono come tutti gli altri. Con la differenza che hanno questa convinzione.
Dunque libero fino alla fine!
Libero fino alla fine, sì. Accademico, quello sì, ma è solo un riconoscimento.
La libertà è uno dei valori più importanti per me.
Non sono neanche mai stato istruttore. Ho diretto una volta un corso di arrampicata a Montebelluna, tanti anni fa, e su 10 persone, nove hanno continuato ad arrampicare e bene: sono felicissimo del risultato. Però poi mi hanno mandato via a calci nel sedere.
Il motivo posso chiedertelo?
Perché innanzitutto ho bocciato tutti i loro istruttori.
Avevo 30 anni all’epoca e quelli che ne avevano 40/50 facevano il quarto grado. Mi sono detto ‘ma dove andiamo qui?’.
Mi sono formato Pier Verri come istruttore, Francesco Gherlenda, Franco Benincà… arrampicatori con il 7a, 7b. E ho escluso tutti quelli che secondo me non erano all’altezza. Mi è bastato per farmi odiare per sempre.
Meglio odiato che imprigionato in certi sistemi a cui non credi…
Sicuramente.
Poi in realtà anche essere odiato non va bene. Cerco di non farmi odiare il più delle volte…
E se si tratta di confrontarsi, ci si confronta. Anche se spesso il confronto diventa rissa. E istintivamente sarei per la rissa: a volte ho un caratteraccio quando mi rompono le scatole. Ma so anche che la rissa è la cosa più stupida da fare.
Mi impegno a mantenere la calma, diciamo così.
Ultima richiesta. Mi elenchi per favore tre salite tra le tantissime con cui posso presentarti?
Qui ci dovrei pensare.
La Philipp-Flamm slegato di sicuro.
La Philipp-Flamm con la Solleder in circa 15 ore insieme ad Alcide.
Sono quelle di cui vado più fiero.
E poi ci sono le vie nuove che ho aperto, come quelle all’isola di Baffin, in Mozambico quest’estate con Maurizio Giordani, la via Capitan uncino alla parete Ovest della Cima di Val Scura nell’’86…
L’elenco è lungo, ma non divaghiamo. Non concentriamoci su un importante e lungo curriculum, ma sull’alpinista, sull’uomo, sul potere attrattivo che la libertà ha su di lui. E su tutti noi. Manrico se ne è accorto e se la sta vivendo pienamente. E noi?
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