Sembrava irraggiungibile. Il blu di quella macchia, quell’opera a basso rilievo sulla parete ruvida della stanza. Era il penultimo passo prima della fine.
Non che l’inizio fosse stato semplice: è stato un tortuoso muoversi appoggiata a prese e parete. Sono partita accoppiando le mani sulla prima presa, i piedi erano appoggiati a due piccole tacche vicino al materasso. Poi ho alzato il piede destro all’altezza delle mani ed è stato allora che ho appoggiato la mano destra e poi la sinistra sulla parete, roteando il corpo e cercando di appiattirlo contro il muro, per poter avvicinare il bacino in linea con le mani e i piedi, e tenermi in equilibrio.
Non è stato semplice, anzi. La presa per la mano destra sembrava irraggiungibile perché tra la parete sinistra, dove avevo appoggiato le mani che mi sostenevano, e la presa destra la distanza era maggiore dell’ampiezza delle mie braccia distese.
La soluzione era lì, davanti ai miei occhi: lentamente avrei dovuto alzarmi con le mani appoggiate alla parete sinistra, poi allungare la mano destra verso la parte opposta con un graduale movimento ad arco sopra la mia testa. Allo stesso momento avrei dovuto spostare il mio peso rimanendo su un’immaginaria linea retta orizzontale, così che il mio baricentro potesse restare in asse. Sarebbe stato il mio piede destro, allora, a sostenere il peso del mio corpo e permettermi con una leggera spinta verso l’alto di raggiungere la presa destra.
Ci sono riuscita: ho rispettato il percorso che avevo tracciato nella mia mente.
Quando ho afferrato la presa, piccola ma stabile, ho cambiato mano per appoggiare lì la sinistra e spostare la destra nell’altrettanto minuta e limitata presa al mio fianco. Ho accoppiato i piedi e mi sono spinta verso l’alto: un’elevazione che mi ha concesso di appoggiare la mano sinistra sulla terzultima presa, staccare la mano destra, salire con i piedi nelle due prese dove prima avevo le mani e…
Mi sono mossa ancora una volta con una lentezza che mi ha fatto percepire il tempo come un’attesa infinita. È stato difficile anche arrivare alla penultima presa, quella che i miei compagni di avventura hanno faticato o non riuscivano a tenere. Ho tentato di afferrarla anch’io: sembrava impossibile trattenere la mano, che voleva scivolare, sfuggire. Troppo instabile era la mia posizione per non sentirmi abbandonata alla rassegnazione. L’ultima presa sembrava irraggiungibile.
Ci ripenso oggi: è accaduto tutto solo ieri.
Da sotto mi dicevano di fidarmi di quella penultima presa, di toccarla solo per un attimo, giusto quei pochi secondi che mi avrebbero permesso di raggiungere la pinza finale. Mi sono distesa completamente, non avevo altra scelta che fidarmi. Sono arrivata all’ultima presa. Ho accoppiato le mani e ho chiuso il boulder.
Ripenso a quei movimenti, ora, e mi accorgo che non mi sono fidata della penultima presa, ma della mia mano e del mio equilibrio instabile. Di me.