Falesia Caleda, buchi ad alta quota

Siamo nei pressi del Passo Duran, a due minuti dalla Malga Calleda, ma sopratutto circondati dalle Dolomiti dell’agordino.

In questo fresco paradiso estivo, tra alte cime e un piccolo bosco da attraversare, parcheggiamo l’auto (qui l’indirizzo) e ci incamminiamo lungo il sentiero in salita che costeggia il torrente cristallino, il Rio Caleda.

Dopo circa venti minuti di avvicinamento arriviamo a Caleda, una palestra di roccia con 58 tiri suddivisi in tre settori.

Le difficoltà variano dai 5a agli 8a+ (il settore Minorenni è il più duro con tiri che partono dai 6b+).

Siamo a circa 1660 metri, sotto le pareti dove sgorga acqua potabile da una piccola fontana e lo spazio per fare sicura e pause pranzo non manca.
Il sole arriva dal primo pomeriggio: scotta, ma, data l’altezza, è sopportabile. In questa falesia è possibile arrampicare da maggio a ottobre.
La roccia è compatta in calcare, caratterizzata da buchi e tacche; le pareti sono prevalentemente verticali e leggermente strapiombanti. Se nei giorni precedenti è piovuto, alcuni tiri (tra i più facili) sono ancora bagnati.

Appena arrivati i tiri più semplici sono a destra, dove troviamo 6a, 6b e qualche 6c, tutti di al massimo 20 metri. A sinistra i tiri si fanno più duri e più lunghi.
Davanti alle pareti lo spettacolo è una meraviglia: vediamo il Sasso del Duran, la Croda Granda, l’Agner e molte altre cime, che sovrastano il nostro piccolo mondo.
Arrampicare con questo sfondo ci offre quella pace che chiediamo ogni giorno, ma che spesso non abbiamo il tempo di vivere.

Dopo una bella e rilassante arrampicata, percorriamo in macchina qualche centinaio di metri fino a Malga Calleda, dove con un buon tagliere tra la melodia dei numerosi campanacci al collo delle mucche, beate sui loro prati verdeggianti, ci ricarichiamo, pronti per il viaggio di ritorno, ma dopo una meritata pausa immersi nella tranquillità del posto.

Osservare quel che qui ci circonda mi fa riflettere.
Ma quale intelligenza artificiale? Ti basta guardare queste montagne con un binocolo per viaggiare in una realtà aumentata da una sola lente che te le fa sfiorare con le mani, di fronte al tuo naso, vicine seppur lontane. E qui sei immerso nella natura, con i suoi profumi e la sua aria, impareggiabile atmosfera senza le tecnologie che ti intrappolano nella quotidianità artificiale di un’epoca ormai senza più tempo.

Se una gallina che attraversa un sentiero di montagna sorprende un bambino di città, qualcosa oggi non va. Che futuro ci aspetta?
Finisco il mio vino di malga, con un retrogusto di nostalgia, e mi sento al centro del quadro incorniciato da queste montagne: alla mia destra il Moiazza, davanti a me l’Agner, alla mia sinistra il Tamer Grande e dentro di me, oltre alla voglia di tornare qui, la pace di una semplicità ormai rara da trovare.

Saliamo in macchina, attendiamo che le mucche tornino in stalla accompagnate dai loro giovani pastori e ci dirigiamo verso la quotidianità, nella speranza che quest’altra lezione ci sia servita per imparare un’altra essenza della vita.

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