Internet, una rete verticale

Non riuscirò mai, senza la spiegazione di chi li apre, a capire il nome dei tiri.

Questa è la falesia Stancari di Arsiero e sto provando Internet da prima, un 5c, un tiro che a guardarlo ai piedi della parete appare una placca liscia senza appigli e appoggi. 

Un 5c disseminato in 18 o 20 metri di altezza, un tiro corto insomma. E un tiro così non può non riservare le sue sorprese.

Raggiungere il primo rinvio già non è semplice, ma riesco comunque a farci passare la corda e proseguo.

Rinviare al secondo spit è stato molto difficile: la questione si fa più seria del previsto. E devo ancora raggiungere la parte di placca che a vista sembra alquanto prepotente.

È la prima volta, mi dicono da sotto, è normale avere delle difficoltà. Io, come sempre, non bado alle consolazioni e salire un 5c in pessime condizioni non mi va proprio giù.

Passo il secondo rinvio, alzo gli occhi e punto il terzo. Allargo il piede sinistro alla parete della fessura, trattengo il destro su un piccolo appoggio, allungo la mano destra per afferrare in verticale una maniglia non buona, distendo il braccio e con la sinistra cerco una tacca poco più grande, ma che sono consapevole sarà il mio unico appiglio sicuro.

E sono solo all’inizio del tiro.

Salgo.

L’amico che mi fa sicura mi chiama.

Mi giro, abbasso lo sguardo e lo guardo fisso negli occhi. Mi dice “ricordati che le mani servono solo per tenerti in equilibrio nella maggior parte dei passaggi, il resto lo devi fare con i piedi”.

I piedi. Devo fidarmi dei piedi. Devo sostenermi e sollevarmi con i piedi. Dare loro le stesse opportunità che do alle mani, che devo finalmente lasciare libere solo di guidare il mio corpo.

Trattengo il fiato.

Non si fa, lo so, ma come al solito non me ne accorgo.

Salgo verso destra. Ai piedi della parete mi dicono qualcosa che non riesco a comprendere: le voci si confondono con lo scialacquio dell’acqua nel torrente vicino.

Mi urlano “sinistra!”.

Già, sono andata fuori tiro: troppo a destra.

Non mi resta che percorrere un traverso di circa mezzo metro: afferro con due dita della mano destra una piccolissima tacca verticale, mi sposto portando tutto il peso verso sinistra per tenere meglio la presa.

Con la mano sinistra riesco a raggiungere una buona maniglia, ma perdo i piedi. La tensione accumulata nei primi metri e il respiro trattenuto limitano la durata della mia sospensione con braccia a 90.

Riposo. 

Non ce l’ho fatta a chiudere il tiro in continuità. Sale la rabbia. La sostituisce l’amarezza. Riparto subito da destra: riesco ad appoggiare meglio i piedi e a spingermi più decisa verso sinistra. Mi sento più sicura e proseguo la salita. Nemmeno la parte finale è semplice, ma il peggio è passato. Arrivo alla catena e scendo.

È incredibile come ogni tiro, in ogni falesia, sia diverso l’uno dall’altro nonostante abbiano gli stessi gradi.

Cambia l’intensità della scalata, varia l’altezza, la roccia è difforme, l’umore è diverso. E l’anima si trasforma, a ogni salita.

I piedi toccano terra, sciolgo il nodo a otto, un’ultima occhiata alla parete e pochi minuti dopo ci troviamo davanti a un tavolo e qualche birra. 

La conclusione è come sempre un insieme di vari racconti. 

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