È una via dove il massimo grado di difficoltà che puoi trovare è un sesto. Quindi, nulla di allarmante.
Il polso mi fa ancora male: tendine e articolazione si infiammano facilmente e non c’è motivazione che riesca ad addolcirli. No, non è la classica scusa da arrampicatore, ma una realtà con cui non voglio convivere. E di cui faccio finta di dimenticarmi, per poter scalare, ovviamente.
È il compleanno del mio compagno di cordata e condivido il suo modo di festeggiare: arrampicare, salire in vetta e guardare il mondo dall’alto, finalmente. Con un anno in più è tutto meritato.
L’avvicinamento prevede una mezzora di cammino lungo una dolce salita su sterrato, per poi addentrarsi nel bosco su un ripido sentiero, tra sterpaglie, rami secchi e radici esposte.
Tra gli alberi vediamo la parete del Pasubio e noi dobbiamo salire a Cima Campiglia. La via è Incredibile ma vero, di Balasso, Antoniazzi e Xodo, aperta nell’agosto 2013, esattamente 7 anni fa.
La roccia non è delle migliori (siamo in Pasubio, cosa dovremmo aspettarci?), ma il fascino dei suoi colori già mi fa dimenticare il resto.
Il cielo, prima azzurro, si sta colorando di bianco, con qualche chiazza di grigio, ma non ci preoccupiamo: il sole dovrebbe resistere.
Parte il mio amico, scavalcando due tranquilli ragni con cui però lui di solito non va d’accordo, e inizia lo spettacolo.

Ogni tiro è una bella avventura: la semplicità della maggior parte dei passaggi mi fa arrampicare con concentrazione e tranquillità, così ho tutto il tempo e la calma per pensare a scalare bene sulla parete, diversificare i movimenti, spostare il peso e modificare gli equilibri con una leggerezza che in via non usavo da tempo.
Alcuni passaggi esposti o dove la roccia non appare stabile infondono quell’adrenalina che non deve mai mancare per divertirsi, senza strafare.
Le soste, comode e quasi tutte appoggiate, sono ben visibili e attrezzate.
Uno dei sette tiri, il più semplice, è un traverso facile ma esposto, da non sottovalutare.
Passato questo ci troviamo in una sosta a un gruppo di alberi, su un’ampia cengia. Ci guardiamo attorno per trovare l’attacco del quinto tiro: davanti a noi c’è un lungo camino e notiamo un cordone all’interno, a circa un metro di altezza. Diamo un’occhiata sopra, ma non riusciamo a scorgere chiodi.
Leggiamo di nuovo la relazione, guardiamo con attenzione il disegno e tutto sembra indicarci quel camino.
Lo affrontiamo.
Quando sale il mio compagno, che trova i chiodi mimetizzati tra i colori e le fessure della roccia, non riesco a osservarlo per tutto il tiro, perché preferisco rimanere vicina e stabile in sosta, e gli alberi mi coprono la visuale.
Tocca a me: inizio intraprendendo la salita all’interno del camino, poi esco, vado a destra su suggerimento del mio amico, quindi entro, per poi uscire ed entrare nuovamente. Per la maggior parte della lunghezza del camino mi trovo a sostenermi in pressione tra le due pareti. I passaggi non sono difficili, ma la paura di incastrarmi all’interno del camino mi assiste fino alla fine del tiro.
Wow.
Arrivata in sosta guardo verso il basso: mi sono davvero divertita.
Mancano gli ultimi due tiri e i passaggi si alternano tra il quarto e il quinto grado.
Siamo alla terzultima sosta e le nuvole hanno completamente coperto il cielo. In lontananza vediamo qualche fulmine e i tuoni irrompono con arroganza per farci sentire il rumore della sfida.
Sale il mio amico e poi arriva il mio turno. Sono a due metri dalla sosta quando inizia a piovere: non ho mai arrampicato con il temporale e non avrei mai voluto provare l’esperienza, ma ormai sono qui. Salgo.
La pioggia è fortunatamente lieve e si spegne quando arrivo alla sosta.
Quando sale il mio compagno, mi guardo indietro: d’un tratto un forte soffio di vento sposta le nuvole sotto di me. La temperatura si abbassa e il panorama è di nuovo nitido. Il freddo mi entra fino a raggiungere le ossa. Una manciata di secondi dopo le nuvole tornano.
Non va meglio nell’ultimo tiro: salgo sempre da seconda e non supero la metà quando pioggia e grandine scendono sopra la mia testa e le mie mani ormai gelide. Continuo la scalata in velocità e con la speranza che il meteo non peggiori. I fulmini sono per fortuna lontani.
Arrivo in sosta con i vestiti inzuppati e vedo il mio compagno tremare di freddo. Abbiamo trovato il tempo per una stretta di mano e una risata prima di sistemare a casaccio l’attrezzatura bagnata negli zaini.
Zuppi e infreddoliti, ma soddisfatti di una bella via, ci incamminiamo sotto la pioggia per il sentiero di ritorno.
Trenta minuti dopo arriviamo alla macchina e la pioggia smette di cadere.
Alziamo gli occhi al cielo, ci scambiamo un eloquente sguardo e ringraziamo la sorte, perché, nonostante tutto, ancora una volta abbiamo avuto la meglio.
Non nascondo di aver avuto un po’ di paura, ma mi sono divertita parecchio.
Incredibile, ma vero.
