Mi guardo le braccia, osservo le mani, e noto come ogni parete lasci su di me segni diversi.
Ce n’è una che adoro e che mi parla con graffi artistici sugli avambracci: lunghi e corti, più e meno profondi, queste linee mi ricordano i riposi sulle cenge, quando abbraccio la roccia per potermi sollevare, trattenere, spingermi più in alto.
Nello stesso luogo sono anche le ginocchia una lavagna su cui scrivere i passi incerti: gli ematomi colorano la mia pelle attorno alla rotula e restano a lungo, come monito alla mia disattenzione e conseguente insicurezza.
In un’altra parete sono state le mie dita a soffrire, in buchi più o meno grandi, ma taglienti quando cerco la loro profondità per trovare un sostegno. Nei mono o bi-dito riesco a sollevarmi ed è quando mi ritrovo a fianco della mia presa che la mano ruota, lasciando il dito tagliarsi sul foro della roccia, unico appiglio per la mia salita.
Ci sono i gomiti a vestirsi di guai in un’altra falesia. Abrasioni e piccoli tagli, così mi sussurrano che devo affidare il mio peso ai piedi, più di quanto penso già di fare. E mi suggeriscono anche di salire più adagio, osservare la roccia e le sue prese, in alto per le mani e in basso per i piedi. Seppur piccoli, gli appigli ci sono e devo credere di più in me, non aver paura di cadere, perché c’è la corda a trattenermi, e non voler cadere, perché posso farcela e salire.
E le mani. Guardo le mie mani, i palmi e le nocche, per leggere le ore passate su prese artificiali e roccia, al sole e sotto le nuvole, a basse temperature e al clima primaverile ed estivo, rigate dalla secchezza indotta dal magnesio. Osservo i calli e le unghie rovinate dalle superfici ruvide su cui si sfregano mentre salgo, scendo e afferro. Le guardo e rivedo tutto: sfide, batoste e soddisfazioni.
Mi parlano questi segni, mi raccontano la mia vita da quando ho conosciuto l’arrampicata e le ho affidato tutto, anche l’anima.