La montagna ai tempi del coronavirus

La montagna al tempo del coronavirus diventa rifugio.

No, non può essere: un rifugio la montagna lo è da sempre, e per vari motivi, dai più scontati ai più bizzarri.

Come viene vista, allora, la montagna in questi tempi di allarmismo?

Nessuno se ne preoccupa. Perché lì, il coronavirus, non arriverà mai.

E non per via dell’ambiente o dell’altitudine, non perché gli scalatori abbiano un sistema immunitario più forte.

No, in montagna nessun virus può colpire chi la vive.

Lassù puoi aver paura dell’altezza, puoi temere di cadere, puoi avere la fobia dei ragni, può assillarti l’idea di mettere la corda nel rinvio, ma di virus e contagi nemmeno una traccia.

Sarà che quando arrampichi non pensi che alla tua via. Sarà che quando ti muovi ti concentri sul bilanciamento del tuo corpo. Sarà che la mente è indaffarata a tradurre e interpretare la roccia, non i virus.

L’unico contagio, in montagna, è la passione. Non puoi evitarlo, perché il legame tra chi scala è troppo forte, perché la corda unisce due persone e niente può o deve dividerle.

La distanza che c’è non è quella di sicurezza, ma la naturale e inevitabile salita alla vetta.

Le uniche precauzioni sono controllare il proprio compagno, che la corda sia ben annodata e che il gri gri o il secchiello siano tenuti come si deve.

Le mani le cospargi di magnesio.

La mascherina è lo scaldacollo.

La pastiglia è la corda che afferriamo con la bocca, per trattenerla prima di farla entrare nel moschettone.

E infine la stretta di mano, per congratularci del bel tiro.

No, in montagna non esiste virus che possa fermarci.

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