Non ci credo. Quel passaggio mi è costato un 6b a vista. E non è la prima volta.
Ma la prima volta non ho avuto il coraggio di ripeterlo. Questa volta sì.
È iniziato tutto con un avvicinamento a dir poco sfiancante…
Arrivati sotto la parete eravamo già abbastanza caldi per iniziare l’arrampicata.
Falesia Valle Santa Felicita, settore Ligaores, una serie di tiri dal 5a al 6b e una parete completamente esposta al sole di settembre. Ma la temperatura era ottima e i nostri zaini erano riparati all’ombra degli alberi.
Decidiamo di iniziare da un 5b: non conoscevamo il posto e la roccia, e i tiri sono lunghi in media 30 metri.
La prima parte è stata dura: era il primo tiro della giornata, è vero, ma la paura di cadere era già alle stelle.
Ah, dimenticavo un particolare: nello spiazzo all’ombra sotto gli alberi si poteva far sicura abbastanza comodi, ma per arrivare alla parete verticale è necessario inerpicarsi su una facile parete appoggiata (che però non è mai da sottovalutare) e, arrivati al reale attacco, il primo spit è a circa due metri. Insomma, passano un bel po’ di secondi prima che il grigri inizi a lavorare.
Torniamo al 5b: quella prima parte del tiro mi aveva davvero confuso le idee e messo in circolo un bel po’ di adrenalina. Ma probabilmente è quello che mi ci voleva.
Superare il 5c è stato facile e anche affrontare il 6a è stato tranquillo, ma divertente.
La lunghezza dei tiri ci aveva stancato, ma io non lo ero abbastanza.
Mi sembra di essere lì, in quel momento…
“Proviamo il 6b?”
“Ma sì”, mi risponde Guido, “semmai continui per il 5b accanto”.
Non è che non si fidi delle mie capacità, è solo premuroso. O almeno così mi piace credere (Guido, se mi stai leggendo, sorridi!).
Stringo il mio nodo a 8, indosso le scarpette sopportando il fastidio cronico alle punte dei piedi e sporco le mani nel sacchetto del magnesio.
Come sempre, l’ansia del 6b bussa alla porta della mia sicurezza e la spalanca, lasciando entrare una folata d’aria di perplessità e paura di non farcela, ma cos’ho da perdere?
Parto.
L’inizio è davvero semplice: una placca appoggiata con buone tacche e appoggi. A meno di metà tiro noto una catena e penso “se il tiro finisce lì significa che è di 15 metri e il solo pensiero di un 6b di 15 metri mi terrorizza”. Ma è impossibile: fino a quella catena poteva benissimo essere un 6a facile.
Guardo in alto e alla fine della parete vedo la catena reale, dritta sopra di me. Insomma, quella che vedevo da sotto, ma di cui per qualche secondo ho dubitato.
Proseguo.
La placca inizia a rivelarsi: in alcuni tratti appoggiata, in altri lievemente strapiombante. Ma c’è tutto: le tacche sono piccole, i buchi bidito sono ben visibili e quasi tutti non nascondono trabocchetti, gli appoggi si alternano tra buoni a punte minuscole.
Ce la posso fare, me lo sento. Il fiato corto e i battiti accelerati mi avvertono che sto affrontando davvero un 6b: le tacche buone sono lì perché non c’è solo l’equilibrio da utilizzare, ma anche la forza, dato che i brevi tratti di parete che appaiono semplici in realtà ti spingono fuori col bacino e, per salire, i piedi trovano appoggi che li portano uno lontano dall’altro, sempre di più.
Eccolo, arriva il passaggio cruciale. Mi trovo ad abbracciare la parete: a pochi centimetri sopra il mio naso c’è un bel buco. Ci entro con quasi tre dita, indice, anulare e medio, della mano destra.
Con la mano sinistra sto tenendo una buona tacca e sono appoggiata con la punta dei piedi, il che non mi concede ancora molto tempo (le dita dei piedi iniziano a darmi parecchio fastidio).
Osservo la parete più in alto e mi concentro sulle prese successive: vedo alla mia destra un piccolo diedro con una fessura e alla sua base si erge un piccolo ma altero spuntone di roccia.
“Quello è mio”, penso, e mi preparo ad afferrarlo con la mano destra, che però sta così bene in quel buco sopra il mio naso.
E allora ipotizzo un cambio mano: secondi interminabili trascorrono mentre pian piano sposto le dita della mano destra per far spazio a quelli della sinistra. Ce l’ho fatta: quasi con un balzo, sicura di me, afferro con la destra lo spuntone e… ho fatto proprio una gran cavolata.
Ricordi il diedro di cui ti ho parlato prima? Bene, la fessura richiedeva una spallata con la destra: a quel punto avrei dovuto rilanciare, ma avevo sprecato troppa forza per quell’inutile cambio mano.
Ed eccomi qui: a penzoloni sul rinvio. Riposo.
Avrei potuto tirare questo 6b a vista, perché pochi secondi dopo sono ripartita, ho eseguito il passaggio correttamente e ora mi trovo in catena.
Scendo, tolgo i rinvii e mi accontento.
Mi merito una pacca sulla spalla, che significa “peccato, ma brava lo stesso”. Eppure Guido mi chiede anche “lo vuoi rifare?”. Gli rispondo no, ma mentre sta bevendo e io mi sto togliendo le scarpe, non mi sento soddisfatta. Mi manca qualcosa. Penso a tutte le volte che avrei voluto fare qualcosa e non ho avuto il coraggio o la voglia di farlo, e di cui dopo mi sono pentita.
“Sei sicura che non vuoi rifarlo?”.
“Va bene dai”.
Ma sì. Di solito non voglio ripetere un tiro per non sopportare un’altra delusione, ma ora sento che devo farlo.
Parto di nuovo.
La stanchezza mi appesantisce su qualche passaggio, ma voglio tirare questo 6b, senza se, senza scuse e senza riposo.
Arrivo al passaggio: stavolta lascio il buco alla mano destra e mi butto con la sinistra per afferrare lo spuntone sotto il diedro. Preso.
Sbandiero inevitabilmente, ma lo sapevo: mi blocco spostando i piedi e utilizzando tutta la forza che mi rimaneva nelle braccia. Spallata con le dita della mano destra nella fessura, spalmo i piedi fino a raggiungere un appoggio con il sinistro, afferro la tacca sopra con la mano sinistra e continuo il mio 6b fino alla catena. Mi guarda appesa alla parete destra dell’ultimo diedro: mi aggancio al rinvio all’altezza del torace sulla parete del tiro e a fatica raccolgo la corda per portarla al moschettone sulla parete frastagliata al mio fianco.
Chiuso.
Sospiro per il sollievo, ma con le idee un po’ confuse, come all’inizio nel 5b.
Stacco l’ultimo rinvio con troppa fretta senza tenermi e come un pendolo fluttuo nell’aria fino a sbattere con la schiena sulla parete della catena.
Niente di nuovo: un’altra botta, che mi ha avvisata che non era ancora finita.
Ricordo tutto come fosse ieri, anche se è passato qualche giorno.
Non sarò di certo un fenomeno per aver chiuso un tiro con questo grado, ma è un passo in avanti. In alto, direi.
[Grazie Guido!]
P.S. L’ho compreso tardi, ma dopo quel passaggio ho capito perché il tiro si chiama Ocio al buso.