Punto la cima bianca

È iniziato tutto ammirando le cime in una giornata di sole. Illuminate dalla luce e colorate dal rosa dell’alba, macchiate di bianco spiccavano nell’azzurro. E io le avrei raggiunte, ai loro piedi, quelle montagne.
Sarei stata un punto tra le righe sarcastiche di una brillante idea che ebbe la terra.

Scarponi indossati, zaino pronto, voglia di iniziare: c’era tutto, anche la compagnia giusta.
Ci siamo incamminati lungo il sentiero di avvicinamento, coperto dalla neve caduta due giorni prima. La sua presenza prometteva bene: il vajo sarebbe stato percorribile, abbastanza semplice da attraversare, affascinante come sempre.
Giunti alle porte del canalone, il sole era nascosto dalle montagne e il freddo iniziava a pungere la pelle.

Lo sguardo verso l’alto, attratto dal cielo che dopo qualche ora avremmo sfiorato. Il sole si è avvicinato, per controllare che tutto fosse in ordine. Abbiamo indossato imbrago, ramponi e caschetto, bevuto qualche sorso di te caldo, scambiato chiacchiere con altri avventurieri di passaggio ed eravamo pronti per partire.
Piccozze alle mani, abbiamo iniziato la nostra salita.
Non era passato molto tempo dal punto dove insieme abbiamo alzato la testa alle vette: i polpacci in tensione hanno iniziato a infastidirmi. Sentivo di dovermi riposare almeno qualche secondo ogni venti passi.

“Muoviti come se stessi indossando degli sci, sali con i piedi ruotati a tre quarti e lasciati di fianco la parete, aiutati a salire con la piccozza: affaticherai meno i polpacci. Altrimenti, quando arriveremo alla vera salita, non avrai più forze.”

Ed eccoli i consigli di un esperto, del maestro, la persona che accelerò il mio innamorarmi dell’arrampicata e della montagna.
Ho seguito i suoi consigli e ne ho beneficiato.
Mentre salivo, seguivo le tracce sulla neve lasciate da chi mi precedeva, quando finalmente siamo arrivati alla parte più verticale del vajo.

La parete che avremmo affrontato era segnata da neve fresca e ghiaccio.
Le mie mani fremevano: avevano voglia di scolpire con le loro piccozze la roccia vestita di ghiaccio. E sono state subito accontentate.
Mani e piedi si alternavano con movimenti che segnavano sulla parete piccoli solchi, tra cui la breve distanza chiedeva controllo, attenzione, ricerca di stabilità.
Le braccia, provate dal peso da sostenere e dai colpi inferti alla parete, contribuivano ad alimentare il mio entusiasmo: ero stanca, ma felice.

La durezza del percorso, l’aspra verticalità di alcuni tratti, gli schiaffi di freddo e detriti di neve, ghiaccio e roccia che cadevano ai movimenti di chi era davanti a me… tutto mi faceva sorridere e stare bene.
Quelli con la piccozza erano colpi decisi, ma spontanei. L’unico movimento che controllavo con piena concentrazione era provare la resistenza della punta nel foro sul ghiaccio o sulla neve, per essere sicura di poter affidare il mio peso all’aggancio. Sapevo che, salvo eccezioni e pendenze non troppo verticali, dovevo restare sotto le piccozze, tenere il bacino vicino alla roccia e la schiena leggermente inarcata quando la parete si mostrava più ripida.

Braccia tese e spalle basse, piccoli passi, ancoraggi non troppo alti rispetto alla mia posizione: la mente rifletteva sul da farsi e quando riuscivo a non pensare alla fatica, sapevo anche di dover distanziare i piedi l’uno dall’altro, così da evitare che i ramponi potessero bucarmi ghette o pantaloni.

In alcuni punti il ghiaccio era protagonista: le sue trasparenze illuminavano di riflessi la roccia sottostante, levigato come il marmo mi mostrava onde immobili che facevano trattenere il respiro. Eppure dovevo colpire quella che sembrava dolcezza e comprendere i suoi punti forti sulla superficie, perché era lì che dovevo creare il foro e far entrare la punta della mia piccozza: formare il mio appiglio.

Passavano i minuti che senza accorgermene si sono trasformati in ore. Eppure quando abbiamo raggiunto l’ultima sella prima del punto conclusivo del nostro vajo, qualcosa già mi mancava. Una sensazione di vuoto nel cuore mi ha avvisato che le piccozze si sarebbero riposate, che di nuovo mi sarei dovuta affidare soprattutto alle gambe e alla resistenza, sempre difficile da allenare.

Quando mi sono voltata verso il canalone appena percorso, sorridevo ancora, ma nonostante la stanchezza mi sarei calata per attraversarlo di nuovo. No, era tempo di raggiungere la cima poco distante. Io e i miei compagni ci siamo dati la mano e abbiamo continuato il tragitto verso la croce.

La cima spiccava ancora su quell’azzurro limpido, dove qualche nuvola ammiccava con spirali che apparivano come pennellate su una tela.
Questa ripida salita è stata breve, ma i crampi si sono fatti ugualmente sentire. Accanto alla croce il vento si infrangeva sulle nostre guance, si infilava sotto i nostri vestiti e il sudore alimentava il freddo che portava con sé.
Lo sentivo, eppure gli sono rimasta indifferente di fronte al panorama che anche questa montagna mi ha regalato.

Ecco un altro motivo perché amo questo sport, disciplina, attività, chiamalo come vuoi: varia di volta in volta, sempre, se lo voglio. Mi porta in luoghi mai visti, mi fa provare sensazioni che di diverso non hanno solo i momenti, ma anche i contesti.

I sensi si arricchiscono di esperienze.
In montagna ascolti storie, conosci leggende, in prosa o viventi. Le superfici variano e il tatto rivive nel freddo e nel calore, nel liscio e nel ruvido, nel dolore e nel riposo. Gli occhi raccolgono immagini indimenticabili e le immagazzinano nella mente, per poter rivivere quei momenti attraverso la memoria. Respiri l’aria, profumata di neve o di bosco. Assaggi il sudore che scende dalla fronte, il magnesio che si stacca dalle mani o la neve che rimbalza ai colpi della piccozza.

È solo una montagna, eppure c’è la vita.

[Vajo nascosto, Cima Carega.
Grazie a Giuliano e Roberta.]

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