Caffè?
Ma sì, ci sta sempre prima dell’avventura. Ci fermiamo nel solito bar lungo la strada, assaporiamo l’aroma nero, quattro chiacchiere e si parte, come sempre, per arrivare all’attacco della via.
Parcheggiamo le auto, leggiamo le indicazioni della relazione sull’accesso, ci carichiamo del materiale necessario e accompagnati dal suono di rinvii, friend e moschettoni, ci incamminiamo verso le pareti.
Siamo a Dro, vicino ad Arco, e ci arrampicheremo sulla Via del Dottore, nella Valle del Sarca.
Le tracce ci portano a un ghiaione da risalire. Qualche decina di metri in su e di lato, e ci siamo.
Arrivati all’attacco ci organizziamo con le cordate, indossiamo il caschetto, prepariamo le corde, le annodiamo a otto ai nostri imbraghi e guardiamo la parete. È una via alpinistica facile, ben protetta, ma dalla lettura non scontata. Alcuni passaggi di quinto e sesto lungo undici tiri non fanno paura.
La via è caratterizzata prevalentemente da placca appoggiata, con un bel diedro, uno strapiombo con passaggio di quinto grado e un traverso che annuncia il sesto grado.
Ammetto, però, che quando mi sono trovata a dover percorrere alcuni tratti tra arbusti e alberi, non mi sono divertita. E penso di non essere stata l’unica. In due punti, infatti, abbiamo portato la corda da primi come se stessimo trascinando chili e chili di materiale. I zig zag tra speroni di roccia e tronchi, infatti, non hanno permesso movimenti fluidi e aggraziati, ma hanno contribuito a linguaggi coloriti e smorfie di… chiamiamola disapprovazione.
Ma se pensi che l’avventura sia questa, ti sbagli.

Siamo a circa metà via quando le alture circostanti iniziano ad arrossire. Lo spettacolo è eccezionale, ma questo è anche un avviso: il sole sta calando, si è fatto tardi e abbiamo ancora 5 tiri da percorrere. L’ombra ci ha avvolti ancora al terzo tiro, il freddo inizia a farsi sentire su muscoli e ossa, ma la salita in alternata ci fa guadagnare un po’ di tempo.
Fino al penultimo tiro.
In questo momento sono l’ultima della cordata. I passaggi più duri della via li abbiamo già superati, ma allora perché ci mettono tanto?
Tento di capirci qualcosa, spaziando con lo sguardo tra gli alberi che mi separano dal mio compagno, ma niente. Sento un chiacchiericcio lontano e allora provo a chiedere “arrivati?”.
“Un attimo” è la risposta.
Devo dire che è l’attimo più lungo che abbia mai trascorso. Ho freddo e fame, e l’azzurro del cielo che si fa più scuro non mi fa stare molto tranquilla.
Bene, sembra sia tutto a posto.
“Molla tutto.”
Sgancio il secchiello e lascio scivolare la corda.
“Stop.”
Passa una manciata di secondi.
“Vai.”
Salgo più veloce che posso: non c’è tempo da perdere. Quando arrivo in sosta il mio compagno mi spiega che erano andati di poco fuori via, ma nulla di grave. Mi assicura, posiziona il secchiello e io parto, seguendo la mia amica della cordata davanti.
Lo confesso, non ho messo alcuna protezione nell’ultimo tiro: anche se è stato un tratto facile, avrei dovuto comunque proteggermi, ma ancora una volta non avevo voglia di perdere tempo.
Usciti dalla via, il sole si nasconde all’orizzonte e l’imbrunire si fa strada tra le montagne.
Raccogliamo in fretta il materiale negli zaini, sistemiamo le corde sulle nostre spalle e partiamo per il ritorno.
Sì, ma da che parte?
La relazione parla di una discesa segnata da ometti e frecce azzurre, che ci condurrebbero al Sentiero delle Cavre e comodamente al parcheggio in trenta minuti.
Sembra semplice. Iniziamo il cammino seguendo degli ometti in discesa, ma ci portano all’uscita di altre vie.
No, sbagliato. Torniamo indietro. Saliamo e ci indirizziamo a sud, saltellando come stambecchi su grandi pietre sdraiate alla rinfusa sulla montagna.
Difficile vedere ometti lì. Intanto il tramonto è ormai concluso e dalla parte opposta la luna fa capolino dalla cima. Sì, si sta facendo buio e noi ancora non abbiamo trovato la strada del ritorno.
“Da che parte è il sud?” chiedo. La relazione della via, infatti, dava la discesa verso sud.
“Di là”, mi risponde una voce infastidita. Già, tutti stanno cercando di capire cosa fare, dove dirigerci, e la soluzione pare ancora lontana. Io allora proseguo per la mia direzione. Decido di farmi condurre dall’istinto (che non sempre è affidabile) in un vagabondare tra le pietre, facendo attenzione alle caviglie, in discesa verso sud.
“Aspetta!” mi urla la stessa voce “vuoi rischiare di trovarti il dirupo e magari cadere?”.
In effetti la visibilità non è ottima, anzi, e proseguire a tentoni non è la soluzione migliore in queste condizioni.
Come temevo, è arrivato il buio e noi stiamo ancora cercando quella che ora potrei definire una via di fuga dalla parete est del settore Cima alle Coste.
E le torce frontali? Be’, io l’avevo lasciata nell’altro zaino e gli altri a casa o in macchina. Ci affidiamo quindi alla tecnologia da cui avremmo voluto scappare: prendiamo i cellulari e accendiamo la torcia per illuminare il cammino. La luce si riflette sulle pietre bianche che sembrano non finire mai, ma serve per impedirci di andare oltre il limite, dove incontreremmo di certo il dirupo.
Destra, sinistra, avanti e indietro… certi di trovare una strada da una parte, dopo pochi metri dobbiamo tornare indietro. Risaliamo ancora per poi riprovare, questa volta arrendendoci alla mappa di un’applicazione che ci conduce, feriti nell’orgoglio, in discesa verso alcuni tratti che assomigliano a piccoli sentieri. Chiamiamole scorciatoie, dai.
Più volte, per non rischiare di cadere, mi sono rannicchiata e lasciata trasportare dalla gravità sulle discese ripide. Ancora indecisi su destra e sinistra, abbandonati dagli ometti e dalle frecce blu, affannati dalla fatica e agguantati dal buio, riusciamo a raggiungere il Sentiero delle Cavre.
Meravigliosi scalini scavati nella roccia ci conducono in discesa verso la salvezza. I miei amici mi raccontano che questi scalini sono stati costruiti da un signore nell’ottocento con martello e scalpello. Metri e metri di roccia lavorata, un filo di ferro come corrimano e la gioia di aver trovato la strada ci portano al sentiero iniziale verso il parcheggio.
“Siamo tornati alla civiltà” afferma il primo di cordata.
Eh già. E lo ammetto: nonostante tutto, rimpiango la natura, il silenzio, il paradiso lontano dalle luci, dal rumore, dalla frenesia di questa civiltà.
Siamo tornati nel mondo reale, sì. Quello da cui si parte per evadere, osare, rischiare, amare. Da cui si scappa per arrivare in spazi dove ammirare il sole che tramonta e la luna che sorge, ascoltare il fruscio delle foglie, lo scricchiolio dei rami secchi, i rinvii che toccano la roccia.
Alla prossima esperienza, allora.