Freddo.
Brividi scorrono lungo la schiena, arrivano alle mani, al collo, ai piedi.
Le ginocchia sembrano cedere, ma resto in piedi.
Con quelle punte metalliche agli scarponi e quel rumore sulla roccia che fa digrignare i denti. Come il gelo, alle pendici delle cascate, dove il ghiaccio ti guarda. E attende.
È il mio turno, devo andare, non ci sono scuse. Tolgo la giacca, i brividi bussano al cuore.
Sale l’adrenalina, ma sai che non è nulla in confronto a quello che sarà di lì a pochi istanti.
Prendo le piccozze piantate nel ghiaccio e inizio guardando la cima.
Trovo il coraggio, devo andare.
La mia mano prende la rincorsa, il braccio è una leva: con forza e senza pensarci due volte conficco la punta della piccozza destra sulla lastra di ghiaccio. Non sente, provo ancora. Tiene, può sostenermi. Tocca alla sinistra.
Lei è più fortunata: un solco lasciato da chi mi ha preceduto diventa un buon appiglio.
Ora che la parte superiore del mio corpo è ancorata, non mi resta che muovere i piedi: inizio con quello che non mi farà perdere l’equilibrio: graffio il ghiaccio, lo ferisco e poi lo modello. Come uno scalpello su marmo i miei ramponi cercano il loro sostegno e lo trovano.
Eppure tutto mi appare così instabile.
Devo fidarmi delle piccozze e dei ramponi, delle mie mani e dei miei piedi. Altrimenti non sarei dovuta partire, avrei dovuto rinunciare. Ma no, non l’avrei mai fatto.
Distendo le ginocchia prima piegate, avvicino il bacino alla parete ghiacciata, la sento, inarco la schiena, guardo di nuovo verso l’alto e torno a specchiarmi sulla lastra che ho di fronte, alla ricerca di un altro appiglio e di un perché.
Qual è il motivo che mi ha spinto a provare, ad arrampicare su una superficie che cerchiamo d’estate per guarire l’affanno e respingiamo l’inverno con il calore di una stufa?
Forse è un’altra prima volta, e abbiamo voglia di un qualcosa che non si scorda mai.