Ore 6.45 sveglia, ore 8 partenza da casa, ore 8.15 ritrovo al Bivio di Piovene Rocchette e alle 9 circa siamo a Tonezza del Cimone. Parcheggiamo l’auto al tornante, prepariamo e indossiamo il materiale, ci scambiamo qualche informazione e siamo pronti per iniziare l’avvicinamento alle pareti del Cimoncello.
Non ero mai stata qui ad arrampicare. Il sentiero ci conduce all’interno del bosco e poi, all’albero segnato da un bollo rosso, lo abbandoniamo per svoltare a destra, dove seguiamo un tratto camminando in discesa lungo un breve sentiero tra radici, sassi e terra, elementi che si travestono di gradini abbozzati per condurci verso un’altra discesa, che mi preoccupa di più. Arriviamo infatti all’imbocco di un canalone di cui non riesco a vedere la fine.
Iniziamo a scendere a zig zag, facendo rotolare qualche sasso che si ferma tra gli intoppi naturali di quello che si presenta ai nostri occhi come un piccolo canyon nella giungla del Cimoncello.
Arrivo indenne alla fine del canalone, anche se mi sembra strano. Infatti mi bastano due passi lungo il sentiero, che ci aspettava piano lungo l’ultima parte dell’avvicinamento, e infilo il piede tra i sassi scivolando pancia all’aria. Nulla di grave, solo un ematoma che comparirà stasera e un fastidioso dolore che mi terrà compagnia per un po’.

Ci avviciniamo alla parete e cerchiamo una grande pianta curva con un cordino che ci indichi l’attacco di “morèie n’tel formaio“, una via alpinistica aperta da Tranquillo Balasso, Erminio Xodo e Sergio Antoniazzi il 24 luglio 2013.

Non troviamo la pianta e decidiamo di proseguire, per poi dividerci: PG sale sulla cengia sotto le pareti e io rimango più bassa, entrambi alla ricerca dell’attacco. Dopo circa 15 minuti uno spiraglio di luce: PG mi chiama dicendomi di tornare indietro perché ha trovato la pianta. Io proseguo a ritroso rimanendo sopra il sentiero percorso precedentemente, ma mi imbatto su un tratto d’erba che mi pare battuta e che si restringe sempre più tra alberi e una parete di terra da un lato e un salto di circa 5 metri dall’altro. Nulla da fare: devo tornare indietro, scendere lungo il sentiero e risalire su terra umida e foglie, aiutandomi con delle radici e rami marci fino ad affiancarmi al mio compagno di cordata, che già si stava preparando.
Lo faccio anch’io, poi afferro le mie estremità delle corde, me le lego all’imbrago e parto per la via.
Il primo tiro sale su un tratto di roccia fragile, come lo è in questo momento il mio umore provato dalla stanchezza.
Proseguiamo poi in alternata lungo una via di 10 tiri davvero bella, divertente e varia, con roccia buona, a tratti ottima, per una progressione su tratti di placca, alcuni di strapiombio e altri in fessure e diedri.

Questa volta i passi di settimo non li ho liberati, anzi. Davanti a uno di questi, che ero pronta ad azzerare con chiodo sotto i miei piedi e il primo tratto dopo la sosta percorso in obliquo, mi arresto, ferma ad ammirare un chiodo tanto desiderato quanto inarrivabile se non prima del passo chiave. Che fare?
Spiego meglio la situazione: mi trovo circa a metà via, a qualche metro dalla sosta che ho percorso con una traiettoria obliqua. Ho rinviato al chiodo posto a qualche centimetro sotto la cengia sopra cui mi trovo e davanti a me mi aspetta un tratto di circa 4 metri su placca leggermente strapiombante percorso da una fessura che si apre verso la fine con piatti e svasi. Il chiodo si trova in cima, a circa 40 centimetri dalla mia mano destra quando la allungo mentre provo a tenere una tacca piatta con la sinistra. Ah, dimenticavo, tra la cengia e questa placca esposta c’è un tratto di vuoto sotto il tetto sopra cui si apre la placca, la quale nella parte iniziale non ha appoggi per i piedi.
Tento di salire e torno in cengia per tre o quattro volte, poi mi arrendo. Non ho il coraggio di passare? Ho perso la testa lungo i primi tiri? Non sono all’altezza del passo? Forse tutte queste possibilità insieme. Sta di fatto che devo ingegnarmi per passare. Di calarmi non ho nessuna voglia… e intendo tenermi quel poco orgoglio che mi rimane (dato che la situazione non è di certo allarmante).
Che fare? Certo farsi prendere dal panico non è una soluzione. E per così poco poi…
Dunque, so di avere all’imbraco due nuovi friend che ho utilizzato pochissimo: quale migliore occasione?
Provo a fissare il viola nella fessura. Mi sembra tenga bene. Lo allungo con un cordino montandomi una staffa, nella speranza che tutto supporti il mio peso. Ma non basta: con un solo appoggio per il piede non sarei riuscita a salire. Alla mia destra una buona scaglia diventa ispirazione per appendere un altro cordino: la seconda staffa che mi è servita per salire e raggiungere il chiodo. Certo, la paura che il friend cedesse c’era, ma “o la va, o la spacca”.
Riesco a raggiungere il chiodo e uscire dalla placca. Il silenzio del mio compagno di avventura è stato eloquente, ma alla riuscita dell’azione è sorto dall’oblio un sospiro di sollievo.
Al sesto tiro un forte vento ha abbassato le alte temperature e ci ha accompagnato fino all’uscita della via, quando finalmente raggiungiamo il libro di via e la sosta su pianta.

La salita è proseguita senza intoppi e, a parte qualche azzero, ci siamo davvero divertiti: è stata una via di arrampicata varia, ben protetta ma pur sempre alpinistica e con qualche accorgimento da non sottovalutare. La stanchezza mi ha colto impreparata e dopo una decina di tiri sento la mia mente provata e il mio fisico stanco. Ma la soddisfazione rimane.

E ci tengo a ringraziare PG, il mio compagno di cordata che da quando ho iniziato ad affrontare vie si è sempre fidato di me, anche quand’ero alle prime esperienze. Grazie a lui ho ampliato le mie conoscenze della montagna da un punto di vista diverso dai tiri in falesia e dall’arrampicata sportiva. Chiamala incoscienza, ma quello di PG è stato soprattutto l’altruismo di chi la montagna la vuole vivere e condividere, di chi ha voglia di imparare e crescere, di chi ama l’avventura e a volte, è vero, pensa di non aver nulla da perdere in cambio di una salita che punta dritta al cielo.
Questa è una mia interpretazione, non sono le sue parole, ma chi affronta questo tipo di esperienze conosce il rischio e lo sfida in cambio di sensazioni uniche, che aumentano l’adrenalina, è vero, ma che regalano anche un motivo in più per ringraziare di essere vivi.