Guardarla dal rifugio appare affascinante, con i suoi colori, le sue sfumature chiare, la sua imponenza. La falesia Sisilla è una parete verticale che ti guarda dall’alto quando le sei ai piedi. Intimorisce a volte, ispira poesia e racconti, perché ha una storia e ha voglia di raccontarla.
Lo fa quando arrampichi, ti parla, ma spesso non la ascolti, non riesci a farlo perché sei troppo intento a scalarla, a cercare gli appoggi per i piedi e dove aggrapparti con le mani.
Ti sostiene, ma solo se glielo permetti, e per farlo la devi accarezzare, chiedere sostegno alle tue addominali, spostare il baricentro, non guardare in basso, ascoltare i consigli del tuo compagno, che ti indica spesso quel che non riesci a vedere.
Siamo arrivati dopo qualche minuto di cammino in salita, appoggiamo gli zaini, l’ammiriamo ancora una volta con lo sguardo rivolto a quello strano orizzonte che si forma tra la roccia e il cielo, un dipinto che si affaccia sulla terra.
Qualche chiacchiera, un saluto a chi era già lì da un pò e il sole ci dà il suo benvenuto: un calore assurdo per un febbraio che nessuno ancora riesce a capire. Ci togliamo la felpa, indossiamo l’imbrago, prepariamo corda, rinvii, magnesio e scarpette. Ci spostiamo con le spalle e le mani cariche verso il punto di partenza del secondo tiro, il più semplice. Più semplice rispetto agli altri, perché di facile ha ben poco.
Il riflesso della roccia colpita dal sole è quasi accecante, ma gli occhiali scuri mi danno fastidio quando scalo. Li lascio a terra.
Tocca a me: avevo già tirato quel 5c da 30 metri e mi ricordo le difficoltà che ho incontrato in parecchi passaggi, i muscoli delle braccia in completa tensione che non davano segno di rilassarsi, i sospiri veloci e le imprecazioni. Ma se ce l’ho fatta due volte, potevo farlo anche una terza. Il Maestro mi dà una pacca sulla spalla “vai per prima, forza” e “usa bene i piedi, mi raccomando”.
Adoro quella parete come ne temo la difficoltà di vedere prese e appoggi. Mi spiego: guardi in alto e alla distanza di mezzo metro sembra di vedere una buona presa per la mano, quindi prosegui con sicurezza e ti ritrovi a dover trattenere uno svaso che sembrava una maniglia o una tacca minuscola che pareva più grande.
Trenta metri sono lunghi da raccontare di movimento in movimento, ma c’è qualcosa che ogni volta non posso dimenticare e che voglio condividere.
All’interno di alcune fessure la mano può trovare la sua maniglia. E non puoi non sorridere al cielo, soprattutto se sono passaggi duri.
Quando arrivo a pinzare quel che abitualmente considererei una brutta presa, mi faccio forza, ci credo e so che posso tenerla, per alzare i piedi e arrivare alla cengia che ho proprio sopra la mia testa.
Un movimento, in particolare, adoro fare su quella parete: il set è una roccia, somigliante a una lastra, che sporge, quasi a coprirmi la mente, il suo lato libero a cui posso aggrapparmi con la mano, portare il mio peso dalla parte opposta e salire pochi centimetri con i piedi posti in linea con la mano. L’altra mano sale sopra la testa, aiutata dalla spinta dei piedi e dalle addominali in tensione, il bacino ruota portandomi faccia a faccia con la parete, arrivo a una tacca, su cui mi appoggio per completare la rotazione del bacino, allontanare il piede in spaccata e spostare la mano che afferrava prima la roccia. La muovo con delicatezza, accarezzo la pietra, compio mezza rotazione del polso e da afferrare passo ad appoggiare: affido il peso del mio corpo su quella lastra che prima vedevo da sotto e ora osservo da sopra. Alzo i piedi, mi stabilizzo, lascio la lastra con la mano e lei mi sorregge ancora, perché ospita il piede. La lascio, devo continuare la scalata. Ma gli amici non si dimenticano.
E di amici, in montagna, ne ho trovati molti: sono rocce, sono diedri, sono vette, sono chiodi, sono persone che afferrano la corda. E se le osservi bene, puoi vedere che tra gli indifferenti movimenti abitudinari di un nodo a otto, un barcaiolo, un passaggio nel gri gri e un’occhiata alla parete, c’è il sorriso, quasi impercettibile, di chi è in quel momento, in quella giornata di sole o nuvole, davvero felice.
[Grazie a Giuliano Dani, local e Maestro, che me l’ha fatta scoprire.]

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