Detta anche “prialonga”, la Carega del Diavolo spicca tra la vegetazione nella Valle del Rameston. Appare proprio come una seduta, da cui puoi osservare il territorio dall’alto. Abituati a pensarlo all’inferno, nelle profondità della terra, può suonare strano che lì ci stesse il diavolo. Eppure la leggenda narra che proprio il diavolo sedeva su questa pietra, a capo di un gruppo di streghe.
Ma qui non viveva solo lui: altre creature abitavano la valle ed erano le anguane, creature legate all’acqua che lavavano i loro panni al torrente, sotto l’alta pietra.
La tradizione popolare racconta anche che in questo luogo è raccomandato di non avvicinarsi la notte, perché ancora oggi le anguane si divertono nella valle con i loro giochi e, se disturbate, emettono spaventosi ululati.

Altri miti e leggende narrano la storia di questo imponente masso, ma nulla ha a che vedere con quello che ti sto per raccontare…
È una giornata splendida: la temperatura è mite, il cielo è limpido e la voglia di arrampicare non manca.
Parcheggiamo l’auto all’imbocco del sentiero. I cartelli ci conducono lungo una strada sterrata all’interno del bosco. Ci stiamo dirigendo alla Carega del Diavolo, dove pochi anni fa la pietra è diventata accessibile agli arrampicatori, che hanno chiodato una ventina di tiri.

Addentrati nel bosco d’un tratto il cielo muta le sue tinte: l’azzurro si traveste di grigio, attraversato da inquietanti sfumature nere.
Alle nostre spalle l’imbocco del sentiero si fa sempre più lontano, ma nonostante l’atmosfera cupa, la poca luce rimasta del giorno ci permette di continuare la nostra strada.
Altri cartelli, incisi a mano sul legno da una mano tremolante, ci accompagnano tra radici esposte, arbusti e alti tronchi.

La rigogliosa vegetazione si incupisce con gli scuri colori del cielo e se da fuori appariva vivace e ricca, all’interno del bosco si fa tetra.

Indugiamo a ogni passo; un ramo secco calpestato riesce a innescare un rumore che pare inseguito da un’eco, le lucertole muovono terra e foglie mettendoci all’erta.
No, tornare indietro appare ora impossibile: il sentiero sembra nascondersi dietro di noi, mentre davanti l’estremità della grande pietra ci osserva sopra gli alberi.
Continuiamo il nostro percorso fino a un bivio: la strada a sinistra porta in discesa verso il territorio delle anguane, ma noi dobbiamo proseguire a destra in salita. Alcuni gradini in legno, trattenuti da pali di ferro, richiamano la nostra attenzione e ci permettono di proseguire tra pietre e terra.
Camminiamo e ascoltiamo: è il bosco a parlarci o sono le anguane? Lo scialacquio del torrente appare un sottofondo quasi sublime se non fosse interrotto da grida sommesse. Il nostro passo si fa più veloce nonostante l’erta salita fino a un piccolo spiazzo di terra, che introduce un brevissimo sentiero ai piedi del trono. La roccia è scalfita da fessure, che la percorrono in tutta la sua altezza. Ancora le grida. Niente tace in questo luogo: neppure il cielo ora ci dà pace, con tuoni spezzati dall’ululato del vento.

Le grida si fanno più vicine: dietro di noi non vediamo alcuna anima viva, eppure le voci sembrano parlarci a pochi passi da dove ci troviamo. Sussurrano parole alterate dalle correnti d’aria, che le rendono incomprensibili. Sono voci femminili, che alternano a toni deboli degli stridii insopportabili.
Ci avviciniamo al masso, a cui appoggiamo la schiena, e la terra inizia a tremare sotto i nostri piedi. Sembra sbriciolarsi, ma noi rimaniamo immobili.
Il cuore accelera il suo battito, il vento punge con le sue folate che alzano i finissimi granelli di polvere fino a scaraventarli addosso alla pelle. Alzo le braccia al viso per proteggermi, ma sembra che nessun gesto riesca a frenare quello che sta per accadere. Cerco di accovacciarmi.
Terrorizzata dalle grida che divengono sempre più assordanti, chiudo gli occhi.
Imbrago e scarpette indossati: sono pronta per affrontare le placche, tra diedri e fessure. Punto come sempre al cielo, di un azzurro spettacolare, che contribuisce a risaltare il grigio chiaro della roccia, materiale prescelto dal Diavolo per la sua immensa Carega.

Una opinione su "Dritti all’inferno"