Sulle vie di Casarotto: Federico Stefani racconta “il diedro dei diedri”

Federico Stefani è un altro alpinista di poche parole con davvero parecchie vie alle spalle. O meglio, sulle dita: come tutti gli scalatori, è sulle falangi che si contano i sacrifici e le salite, le delusioni e i successi, le azioni che qualunque cosa abbiano portato sono comunque state pienamente vissute.
È negli occhi che leggi le soddisfazioni, gli umori e gli allenamenti: alle braccia, alle mani, alle gambe e a un ambiente, quello della montagna, che ogni volta riesce a lasciarti letteralmente il segno.

Di poche parole, sì, a parte quando gli argomenti gli interessano. In questo caso parliamo di uno dei più grandi alpinisti, a livello nazionale e internazionale, che è nato a Arcugnano nel 1948 e che in Federico (e in molti altri) ha lasciato un’impronta particolare nella mente, come nella memoria di chi lo ha conosciuto.

“Mi chiederai perché il Diedro Casarotto è sempre stato il mio sogno. Be’, è una lunga storia. E inizia nella biblioteca del CAI di Camisano, di cui faccio parte, dove ho incontrato Renato Casarotto nei primi del 2000. L’ho incontrato attraverso il suo libro, che ho preso in prestito perché volevo conoscere meglio un alpinista di cui avevo sentito parlare anche nella palestra che frequentavo, dove arrampicava Piero Radin, storico compagno di cordata di Renato Casarotto.
Ho iniziato ad appassionarmi a questo alpinista, alle sue solitarie e invernali. Mi ha affascinato soprattutto la sua personalità: un uomo semplice, che parlava poco e che se anche ha affrontato grandi imprese, ai livelli dei più bravi e conosciuti alpinisti, preferiva tenerle per sé o almeno all’interno della sua cerchia di amici e conoscenti, appassionati e persone dell’ambiente. Forse non si è saputo pubblicizzare come hanno fatto altri, oppure semplicemente non intendeva farlo.
Sta di fatto che le sue cime, le sue salite, le sue esperienze sono state di grande rilievo, anche se non mediatico sicuramente storico, nel nostro territorio e oltre i confini nazionali, e coinvolgenti per me, tanto da invogliarmi a continuare nella ricerca di informazioni su Renato e su ciò che ha fatto.

Renato Casarotto

Per quanto mi riguarda, ho iniziato ad arrampicare da molto giovane, dalle escursioni con mio padre ai corsi di alpinismo e di roccia, dalle ferrate alle prime esperienze sui vaji, dalle vie in montagna e cascate di ghiaccio al periodo del servizio militare dove ero parte degli Alpini di Belluno.

Dal 2011 ho iniziato a prendere sul serio l’arrampicata, a dedicare il mio tempo libero, oltre il lavoro e la famiglia, soprattutto alle salite in montagna. Ma il modo di arrampicare che piace a me è quello fuori dalla moda, lontano dai luoghi affollati, su pareti semi-isolate, spesso di rilevanza storica. La falesia (ad esempio quella di Lumignano, a due passi da casa) è stata importante per me come allenamento, ma appena potevo e posso io scappo dalla pianura ed entro nel mio mondo, quello della montagna.

Il mio sogno nel cassetto, dato che avevo coinvolto mio padre ad arrampicare e ad accompagnarmi a fare vie, era salire con lui la via che più mi rappresenta, che più attirava la mia attenzione per lo stile d’arrampicata, per l’essenza della salita e per chi l’aveva aperta: il Diedro Casarotto. Un lungo avvicinamento, un attacco difficile da trovare, una via isolata, un luogo dove non prende il cellulare, una salita lunga e poco protetta, una discesa complessa: era il mio sogno e volevo realizzarlo con una delle persone più importanti della mia vita.

Il Diedro Casarotto è la via simbolo, nelle Dolomiti, di Renato Casarotto. È il diedro perfetto, “il diedro dei diedri”, lungo circa 400 metri, oltre i 300 metri precedenti della via.
È il più lungo nelle vie delle Dolomiti e fa parte del trittico Diedro Casarotto – Diedro Cozzolino (sul Piccolo Mangart di Coritenza) – Diedro Philipp-Flamm (sul Civetta).

Purtroppo, dopo la malattia, mio padre non ha più potuto fare questo tipo di uscite con me, ma nel frattempo ho conosciuto Paolo Cerin e Tranquillo Balasso. Il Diedro Casarotto era l’ambizione anche di Paolo, ma per un motivo o per l’altro non ha mai potuto salirlo. Lo stesso vale per Tranquillo, che dopo aver scalato quasi tutte le vie delle Dolomiti, questa gli mancava.
Tre scalatori e un unico sogno: perché non provare insieme allora?
Avremmo dovuto realizzare questa avventura circa 5 anni fa, ma anche allora sono insorti motivi per cui o uno o l’altro non era disponibile.

Fino all’anno scorso quando, ritiratosi Tranquillo, ho conosciuto un ragazzo, Alessandro, che aveva iniziato ad arrampicare nel 2020 con ottimi risultati in falesia, soprattutto in placca. Il problema era che gli mancava l’esperienza e la conoscenza della montagna: imparare a interpretare la roccia, leggere la linea, come proteggersi, il rapporto che si instaura in cordata e altri elementi indispensabili per affrontare determinate tipologie di salite.

Ho iniziato allora a uscire con lui in montagna su vie anche con passi obbligatori di grado alto e poche protezioni: vedevo che arrampicava bene, in velocità e con abbastanza sicurezza. Sì, ho pensato che poteva essere pronto per il Diedro. Informai Paolo: ‘o andiamo noi due, oppure convinciamo Alessandro per completare una cordata di tre’. Paolo accettò e quando feci conoscere Renato Casarotto e la via a Alessandro, se ne innamorò.

L’anno scorso abbiamo deciso di partire. Ci volevano almeno cinque giorni di tempo stabile, le temperature giuste e la disponibilità condivisa di tre persone. Finalmente il fine settimana perfetto arrivò: era luglio e se anche era un mese inconsueto per salire questa via, abbiamo deciso di partire.

L’avvicinamento su prati verticali e mughi durò circa cinque ore fino alla grotta, alla base della parete, dove abbiamo bivaccato.
La prima notte di Alessandro è stata purtroppo insonne, ma la mattina presto ci siamo comunque svegliati tutti, pronti per partire: i primi tiri li avrei tirati io, i quattro centrali Paolo e gli ultimi, fino all’uscita in Cengia, Alessandro.

Nei primi tiri non c’erano protezioni e le soste sono su mughi. L’ottavo tiro è il primo di una serie di lunghezze dure, con grado obbligatorio alto, ben protetto da chiodi, ma pur sempre in un ambiente e in una via alpinistici. Quando è arrivato in sosta, ho percepito che Alessandro iniziava a sentire, nel corpo e nella mente, le difficoltà e le fatiche di un modo di arrampicare selvaggio, fuori dal comune scalare in falesia o nelle vie sportive.

L’alpinismo riesce a metterti alla prova perché ti mette di fronte la montagna in tutti i suoi aspetti, quelli più belli ma anche quelli più difficili. Le sue pareti sono affascinanti, le sue conformazioni ti attraggono in modo ipnotico, ma, come ogni esperienza che ti spinge oltre i limiti della quotidianità, richiedono tutto te stesso, la tua lucidità e la tua concentrazione. Alla montagna non interessano le tue prestazioni da curriculum o la tua visione romantica del mondo: lei vuole tutta la tua attenzione, ti sfida a ogni presa e riesce a metterti in continua competizione con i tuoi limiti, anche quelli che non sapevi di avere.

Era il turno di Paolo e ho notato che anche lui mostrava qualche segno di cedimento, ma ha comunque concluso i suoi tiri. Sarebbe poi toccato a Alessandro, ma io e Paolo abbiamo deciso di non farlo tirare. Ho iniziato quindi io i seguenti tiri nel diedro: è il tipo di arrampicata che amo, ma in quel momento ero consapevole di essere stanco dopo aver scalato i tiri precedenti e inoltre portavamo tutti diversi chili negli zaini. Le condizioni erano abbastanza complesse e vedevo che la cordata stava rallentando. La mia preoccupazione era l’arrivo del buio e comunque rallentare in parete non è mai una cosa buona quando si è in montagna.

Alessandro e Paolo cedettero a me le redini della cordata. Era la salita che desideravo, il modo di arrampicare mi piace ed ero abbastanza allenato per poter proseguire. Sulla cengia a duemila metri, che precede gli ultimi quattro tiri facili, abbiamo bivaccato. Il freddo cominciava a farsi sentire e anche quella seconda notte è stata dura per Alessandro a causa del freddo e di un sacco a pelo non idoneo. Paolo era abituato a queste condizioni, Alessandro no.

Dopo un’altra sua notte insonne, arrivò la mattina: scalammo gli ultimi tiri e arrivati alla cima rimanemmo qualche minuto ad ammirare il panorama, l’ennesimo.

Iniziammo poi la discesa, a noi sconosciuta, che durò circa tredici ore, a causa di qualche nostro errore di orientamento, tra calate in doppia e camminate.

Raggiunta l’ultima forcella al calar della sera, abbiamo intrapreso il sentiero che ci avrebbe condotto alla macchina. E così è stato, nonostante la grande stanchezza.
Abbiamo perso qualche chilo, ma è stata un’esperienza che ha segnato le nostre vite. Ed è stata come me l’aspettavo, come volevo, come desideravo.

Alessandro, Paolo e Federico

Dopo il Diedro Casarotto ho voluto abbinare altre due famose vie di Renato, caratterizzate anch’esse da salite su diedro: la Via Casarotto a Roda di Vael (una via aperta senza chiodi e solo con blocchetti, che all’epoca Renato aveva portato in Italia dall’Inghilterra) e la Via Casarotto-Campi al Sojo Rosso in Pasubio aperta nel 1973, una via purtroppo dimenticata, che farà parte della collezione di vie che sempre più scalatori, soprattutto della nuova generazione, abbandonano perché spesso la roccia è delicata, gli avvicinamenti sono lunghi, le protezioni sono poche e per altri aspetti che caratterizzano molte classiche del nostro territorio.

Ho altre vie in programma, moltissime altre, ma il Diedro Casarotto ha rappresentato un’esperienza importante per me, non solo per quel che ho già detto, ma anche perché per farla ho dovuto affrontare una delle mie grandi paure degli ultimi anni: quella di non tornare a casa da mio figlio.
In montagna non voglio morire, però sono consapevole che il rischio c’è.

Ma farsi troppe domande non serve, perché ti blocca, ti impedisce di andare avanti e viverla la vita. Una vita che a volte può anche essere appesa a un chiodo… in montagna, si intende!”

Grazie Federico.

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2 pensieri riguardo “Sulle vie di Casarotto: Federico Stefani racconta “il diedro dei diedri”

  1. Ciao Federico, ho letto tutto d’un fiato il tuo racconto, ho sempre saputo della tua grande passione x l’arampicata, fin dai tuoi primi passi, e che la vita in gruppo come il nostro ti andava stretto, x la tua grande voglia di conoscere, di esercitare, e di intraprendere la montagna a tuo modo, il gruppo ti stava stretto xche non aveva capito la tua voglia di conoscenza. Hai trovato la tua strada fatta di sacrifici e rinunce, hai coinvolto x primis tuo papà che fin che ha potuto ti ha seguito, sempre con un po’ di ansia per le tue imprese( fa sempre vie più difficili sperem ben) ero sempre al corrente delle tue imprese. Ora sei arrivato alto, stai facendo cose straordinarie, ti sei buttato a capofitto con i tuoi compagni di cordata a fare quello che hai sempre sognato e desiderato, forse anche complice della tua situazione familiare,( vai x ritrovare te stesso è x uno sfogo, forse) ma sempre consapevole,(questo mi piaciuto moltissimo) di avere un figlio a casa che ti aspetta e che ha bisogno tanto di suo papà. Chiudo Federico, (non abbiamo mai chiacchierato tanto così io, e te), sono felicemente orgoglioso delle tue imprese e delle tue salite, avrai ancora tante vie da aprire o da ripetere sempre con accortezza e curiosità. Ho piacere che nel racconto ti ricordi del tuo gruppo di appartenenza, un abbraccio e tanti auguri x le tue nuove importanti imprese. Ciao

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  2. Ciao Federico. Abbiamo fatto qualche escursione assieme, ricordo sempre con affetto un trekking (almeno di 15 anni or sono) in Brenta, al rifugio 12 Apostoli, alla bocchetta dei camosci e al rifugio Agostini. Ho ancora una foto che ritrae te e tuo padre Antonio proprio alla sommità della bocchetta. Il tempo è passato e Tu sei cresciuto, fai cose interessanti, sicuramente rischiose, le capisce solo chi va per monti. L’importante è capire i propri limiti e saper osare solo quando ti ritieni mentalmente preparato. Pronto anche a saper rinunciare. I miei complimenti quindi, spero di rivederti presto. Francesco Fortin

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