Pilastro Gabrielli: uno spigolo e i suoi diedri

La giornata ventilata porta con sé il calore della stagione estiva che pian piano si sta avvicinando. La temperatura è dunque ottima per salire una via che per caso abbiamo osservato la settimana scorsa, diretti a Moana Mon Amour. 

La parete della Mandrea, all’inizio del sentiero di avvicinamento, ci mostra infatti uno dei suoi lati migliori: il Pilastro Gabrielli, una via storica aperta da Stenghel e Vaccari nel 1978, e dedicata al dottor Gabrielli, che dalla strada ha seguito la chiodatura della linea.

“UNA SCULTURA DELLA NATURA
Un giorno piovoso d’autunno, con la mia vecchia motocicletta mi dirigevo verso la Valle della Mandrea; vi arrivai bagnato fradicio, immerso nelle nuvole che nascondevano ogni vista.
Avevo sentito parlare di un pilastro di roccia stupendo ed altrettanto ardito e trepidavo per il desiderio di poterlo almeno vedere; speravo nell’Ora del Garda (vento che soffia nella valle n.d.r.) e rimasi in attesa camminando pensieroso lungo un sentiero. All’improvviso mi apparve tutta la parete dalla quale risaltava imponente, scultura della natura, il Pilastro della Mandrea: un invito, un sogno che incantava.
Una via nuova per legare il mio nome a questa montagna, tracciando una via logica, ideale lungo quei diedri posti incredibilmente sul filo dello spigolo: per me era una attrazione fatale. Non salire solamente per il puro piacere d’arrampicare, ma per scoprire metro dopo metro, insomma, per vincere. Credo sia la stessa sensazione dell’artista nel creare la sua opera, credo ci voglia la stessa concentrazione e stato d’animo.
Ipnotizzato da quella vista, confidai l’idea al mio giovanissimo compagno di corda, Giorgio Vaccari. Arrampicavamo pieni di entusiasmo e con la forza dei nostri vent’anni. Allora non c’erano i dadi di tutte le misure, i friends o altri strani aggeggi, non c’erano nemmeno le scarpette leggerissime e super aderenti, ma esistevano solamente gli scarponi pesanti, i grossi cunei in legno che ci preparavano in falegnameria ed i chiodi in ferro con l’anello saldato in officina: eppure, impiegando molte ore, riuscivamo a salire.”

[Dal libro “Lasciami volare” di Giuliano Stenghel, per gli amici Sten]

Proprio così: la natura riesce sempre a sorprenderci con la sua creatività e un pizzico di poesia. Perché pensare di scalare uno spigolo e salire lungo magnifici diedri e fessure non è prosa, ma il verso di un’incredibile componimento poetico.

Trovare la via a dieci minuti di avvicinamento dall’auto è stato facile (il nome è scritto in rosso all’attacco). 

Saliamo i primi due tiri sullo zoccolo erboso con roccia non sempre buona, ma la linea che ci troviamo davanti a pochi metri dalla seconda sosta ne vale la pena.

Una grande fessura gialla ci accompagna alla prima reale sosta del tiro su un pulpito, per poi proseguire fino alla seconda sosta su una placca appoggiata: forse un po’ scomoda, ma sicura grazie a due buoni spit e poltrona in prima fila per ammirare lo spettacolare panorama che sempre ci riserva la Valle del Sarca.

Da questa sosta si parte per il primo tiro impegnativo della via che richiede il superamento di un tratto esposto fino a raggiungere il diedro rosso, che si sale grazie alla bella fessura. Un VI grado dallo stile dolomitico: l’impegno di questo tiro è soprattutto della mente, che deve affrontare lunghezze con pochissime protezioni, parecchio distanziate. Proteggere la via con friend è possibile (Federico ha utilizzato solo friend grandi), ma spesso posizionarli risulta un’ardua impresa di equilibrio.

Del terzo tiro è ancora protagonista il meraviglioso diedro rosso che poi si colora di bianco nel quarto tiro di VI+ continuo.

La sesta lunghezza è un facile V composto da due brevi placche e tratti erbosi.

La roccia splendida si interrompe solo lungo alcuni brevissimi tratti in cui si presenta nella friabilità che più spaventa l’arrampicatore, già provato da una salita che richiede forza, equilibrio e… un po’ di pelo sullo stomaco che gli alpinisti ben conoscono.

Non si tratta di una salita protetta a spit ravvicinati, ma a cunei e vecchi chiodi, gli stessi che hanno utilizzato gli apritori negli anni ’80, tra cui Giuliano Stenghel, famoso, oltre che per la sua carriera alpinistica e per le numerose vie aperte, anche per la sua bravura nell’affrontare e superare con naturale agilità i tratti di roccia friabile.

Tra i più belli della parete Mandrea, il Pilastro Gabrielli e un itinerario spettacolare. Un difetto? Troppo breve. Avremmo voluto ci fossero concessi altri tiri su questi diadri e fessure, ma la natura è così: ci sbalordisce nelle sue contraddizioni e con il suo fascino disarmante, ci attrae a sé e poi ci lascia in sospeso, nel dubbio che si nasconde dietro la sua bellezza.

Giuliano Stenghel, quando parla del Pilastro Gabrielli, ricorda alcune frasi presenti nel vecchio libro di via, pensieri che gli scalatori hanno riservato sull’itinerario e sulla sua atmosfera.

Il libro non c’è più, ma quel che mi è rimasto della salita lo scrivo qui, lungo il sentiero della discesa, seduta al sole con la penna che porto sempre con me e su un fazzoletto, perché ahimè la carta ora non ce l’ho.

“Sola. È un viaggio speciale quello che mi è stato concesso al ritorno dall’ascensione del Pilastro Gabrielli. Io, con il suono dei rinvii che toccano il caschetto al ritmo dei miei passi. Sola, con il rumore dei pensieri che si accavallano in un moto tormentato da ricordi e presente.
La vita bussa quando meno te lo aspetti e allora impari a guardare ciò che davvero ti scorre davanti, quel che resta e i momenti che erano solo di passaggio. Ci vuole coraggio a confrontarsi con il silenzio. Ma a volte è l’unica strada verso la consapevolezza. Sola, con il suono dei rinvii e il rumore della vita.”

Complimenti a Fede che ha salito tutto il Pilastro da primo in libera!

[In ricordo di un grande scalatore che ha lasciato le montagne della terra per aprire, forse, nuove vie chissà dove. Grazie Sten!]

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