Chissà se i dinosauri sanno arrampicare

La strada per arrivare al parcheggio è una spirale di diversi tornanti in mezzo alla vegetazione. Di tanto in tanto la natura rigogliosa ci lascia intravvedere un paesaggio davvero particolare per il posto e di cui noi non ci eravamo mai accorti: l’arido terreno grigio macchiato da qualche cespuglio è in realtà il rimasuglio di diverse frane. L’ultima si pensa risalga al Medioevo e ha lasciato dietro di sé migliaia di massi grandi e piccoli, che poggiano su scaglie di pietra che calpestandole rumoreggiano come vetri rotti.
Parcheggiamo la macchina alla Baita Damiano Chiesa e ripercorriamo un breve tratto di strada fino alla sbarra abbassata da dove inizia il sentiero sulle Orme dei dinosauri. Già, perché a quanto pare la zona è ricca di reperti preistorici e a guardarla sembra l’ambiente giurassico che vediamo nei film, grigio e bianco, con alture e pendii che sovrastano Rovereto.

La strada di avvicinamento verso la palestra di roccia inizia dal percorso Piste dei dinosauri, nel paesaggio dei Lavini di Marco, vecchio di circa 200 milioni di anni.

Sapevamo che il tragitto sarebbe stato lungo, ma quando alla deviazione osserviamo l’orizzonte oltre cui dovremmo procedere, esitiamo qualche secondo, ci guardiamo negli occhi e ci convinciamo con un “dai, andiamo, ormai siamo qui”.

Sarà la suggestione dei dinosauri o i colori della pietra illuminata dalla luce solare, ma mi è parso di sentire un rumore tra gli alberi. Mi trovo a pochi passi dallo scollinamento e mi fermo, cercando di restare immobile. No, non sono lucertole sulle foglie secche o uccelli tra le fronde. È qualcosa di più grosso, ne sono convinta.
L’immaginazione ci offre diversi spunti per pensare a quale animale si potrebbe nascondere in quel boschetto. Provo a guardare meglio, ma non riesco a vedere nulla.
Non ci resta che proseguire, guardinghi, alla ricerca della falesia oltre l’altura, che attraversiamo lungo uno stretto sentiero affacciato sul dirupo e sulla distesa di sassi.

Ci voltiamo e osserviamo meglio il posto. Non vediamo nulla, nemmeno dall’alto. Sarà stato solo frutto della fantasia? O non tutti i dinosauri sono scomparsi?
Metto questo dilemma nel mio pesante zaino, insieme alle scarpette e all’attrezzatura, e continuo la mia strada.

Arriviamo alla palestra di roccia Pista dei Dinosauri cinque minuti dopo. Ci accoglie un fitto bosco con le sue foglie ingiallite a terra. Le pareti sono basse, all’apparenza lisce, di calcare grigio: una roccia solida, fantastica per arrampicare. Più avanti alcune crepe disegnano strane figure sulla superficie. Il luccichio dei fix ci accompagna oltre le chiome degli alberi fino a raggiungere con lo sguardo un cielo coperto dalle nuvole, ma che pian piano si sta colorando d’azzurro.

I tiri sono in media di 10 e 15 metri, i gradi variano tra il quarto e il settimo, e l’arrampicata è in prevalenza di placca.
Osservo meglio le pareti e noto che la placca appoggiata è protagonista di questa visione: non promette nulla di buono. Parlo per me, lo sottolineo. La placca appoggiata mi fa pensare a una illusione, a un percorso a ostacoli e trabocchetti.

Affronto senza intoppi il 5c e i 6a, ma assaporo l’inferno nel 6b: le tacche sono piccole e formate da quelli che mi appaiono come bassorilievi, impronte di dita di qualche creatura preistorica simile all’uomo, da afferrare in verticale, di rovescio o in orizzontale, solo se ti fidi dei piedi, che sono costretti ad appoggi minuscoli e svasi. Ma è placca appoggiata, ci sta… giusto?

Sarà anche giusto, ma perdo la testa e pure la fiducia.
Non svelo altro: mi limiterò a dire che prima o poi ci tornerò, anche per scoprire gli altri settori che non ho visitato e per trovare quella leggerezza necessaria a volare sulla placca appoggiata.

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