La strada di ritorno dalla cima del Cevedale mi sembra più lunga dell’andata e molti di noi (tra cui io, ovviamente) siamo stremati. All’uscita siamo circa 30 tra istruttori e allievi del corso CAI A1, ma ci siamo divisi spontaneamente a gruppetti tra chi è più veloce e chi è più lento. Davanti a me Carlo Dalle Nogare, il Noce, sta scendendo da solo e allora, seppur con molta fatica, decido di raggiungerlo e cogliere un’occasione che non mi capita mai: parlarci qualche minuto. Chissà se oggi sono la giornata e il momento giusto per farlo…
Nella speranza che l’umore del Noce sia buono, quindi, provo a fargli qualche domanda, io con il fiatone e gli occhi rossi dalla stanchezza, lui tranquillo come se stesse scendendo dal Summano dopo una birra in compagnia.
[Nella foto in copertina: Carlo Dalle Nogare Noce con Marco Pieropan Gramegna]
“Noce, posso farti qualche domanda? Vorrei scrivere di te.”
La prima reazione è stata una risata e poi “certo cara, ma cosa vuoi scrivere su di me?”.
Eh già, un altro alpinista modello: è tra i più forti arrampicatori, istruttore e accademico del CAI, ammirato dai giovani (e meno giovani) mentre scala in tranquillità i traversi di 7a e 7b in palestra tenendo tacche impensabili sugli strapiombi, ma, come molti altri che ho conosciuto, è anche modesto ad alti livelli.
Eh, certo, che vuoi scrivere del Noce… ebbene, un libro sarebbe troppo breve, ma dato che ho pochi minuti per scendere in sua compagnia (se riesco a tenere il passo), ne approfitto per mettere nero su bianco almeno qualche riga.
Voglio sottolineare come sempre che questa non è un’intervista, ma il frutto della mia interpretazione delle sue parole.
Mi racconta del padre amante della montagna e del nonno che arrampicava e che ha aperto parecchie vie, ma mi sorprende che lui non abbia mai voluto scalarle. Alla mia richiesta di una motivazione, il Noce mi risponde semplicemente “perché non ho voluto farlo”. Non insisto e vado oltre.
Gli chiedo delle vie che ha salito, molte nelle Piccole Dolomiti e moltissime nelle Dolomiti e in tante altre zone del mondo, tra cui lo Yosemite negli Stati Uniti insieme a Ivo Maistrello.
Gli chiedo se c’è una via che gli è piaciuto di più scalare e non ha una preferenza, sono molte. Sottolinea che una bella arrampicata non è solo data dalla linea, dalla roccia e dalle difficoltà, ma soprattutto dai momenti in compagnia, insieme alle persone con cui stai bene.
Mi racconta che spesso ha rinunciato alla scalata di una via se gli capitava che i compagni di sempre erano impegnati o preferivano fare altro. E che ha affrontato anche delle solitarie, per provare quest’esperienza, ma non fanno per lui.
Secondo il Noce, per essere vissuta in tutti i suoi aspetti più belli, l’arrampicata va associata anche all’amicizia, a quei rapporti umani irrinunciabili che vengono prima della semplice prestazione o della voglia sfrenata di scalare una via. ‘Se non si può oggi, si fa un altro giorno’. È questo il suo punto di vista. E, secondo la mia opinione, è un modo corretto di vedere le cose: il nostro tempo ha un limite, conviene davvero perderlo per arrabbiarsi o lamentarsi delle piccole vicissitudini?
E cos’è cambiato nell’arrampicata da ieri a oggi? Tante, tantissime cose. Ma è un aspetto che non avevo preso in considerazione a incuriosirmi: “adesso c’è Facebook, cara Martina!”. Già, i social network in primis, ma anche siti, blog e altri spazi digitali di condivisione hanno segnato una nuova strada, quella dell’avere già tutto sotto mano: meteo, condizioni della via, informazioni su avvicinamento, accesso e ritorno, recensioni, difficoltà, giudizi sul tratto più duro e molti altri dati che servono, certo, ma che tolgono pian piano quello spirito a cui i nostri “vecchi” erano abituati. Mi riferisco allo spirito dell’avventura, al fascino dell’ignoto e della sorpresa, al mettersi in gioco, allo sfidare sé stessi e non gli altri, al comprendere anche da soli ciò che ci si trova davanti e non perché qualcuno te l’ha spiegato nei dettagli prima.
Non sto dicendo di affrontare la scalata in montagna all’arrembaggio, senza informarsi e con incoscienza. Ho ascoltato il Noce con molta attenzione e penso di aver capito cosa intendesse: ci stiamo facendo influenzare costantemente dal pensiero e dai giudizi degli altri che non siamo più in grado di pensare con la nostra testa, e i giovani di oggi (ma non solo oggi) si stanno concentrando forse troppo sulla prestazione fine a sé stessa, senza assaporare il gusto di vivere la montagna. ‘Andiamo a scalare quella via perché è bella: l’hanno scritto su Facebook’.
“Così ci ritroviamo con le vie famose (perché tutti ne parlano) sempre più ripetute e affollate, e altre fantastiche vie semi-abbandonate, perché nessuno ne parla” mi dice amareggiato Carlo, che continua “un giorno io e il mio amico, compagno di cordata da sempre, ci siamo accordati per scalare una via di ghiaccio. Era da tempo che avrei voluto farla, quindi ci siamo organizzati e siamo partiti. Arrivati al bivacco ci siamo trovati quattro cordate e uno che ci ha detto a che ora ognuna sarebbe dovuta partire. La via l’ho fatta, bellissima, ma non l’ho vissuta come avrei voluto: insieme al mio amico senza attendere in coda gli orari, in piena libertà”.
Ma non è solo l’affollamento il problema: il Noce mi racconta che gli è capitato di ascoltare dei ragazzi che hanno scalato una famosa via di grandi difficoltà, tralasciando gli ultimi tre tiri perché troppo facili. Una via fa fatta fino alla fine, la cima devi raggiungerla. Dov’è lo spirito di portare a casa una via intera e non la semplice prestazione?
“E le vie belle non sono solo quelle dure: ci sono salite meravigliose anche di quinto e sesto grado.”
I ragazzi di oggi riescono a superare difficoltà altissime: l’arrampicata si è evoluta anche grazie agli allenamenti, alle possibilità di scalare più tempo e magari farlo per professione.
“A mio nonno, invece, capitava spesso di raggiungere in bici la sera dopo lavoro il posto dove avrebbe dormito, per poi la mattina avvicinarsi all’attacco di una via. E le Dolomiti una volta erano una vacanza, un lusso per chi aveva tanti soldi. Oggi non è più così.”
Per non parlare degli attuali materiali, di cui una volta gli scalatori non conoscevano l’esistenza, e il sempre più basso livello di rischio, rispetto al passato, per la presenza delle nuove tipologie di protezione (non parlo delle eccezioni e della scalata senza corda).
“Decenni fa il grado massimo era il sesto, nel 2030 forse non basterà il 10c”.

“L’arrampicata si è evoluta, ma non è detto che, sotto certi aspetti, sia migliorata”, affermo io.
“Parlo di evoluzione. Che sia migliorata o meno è solo un parere. Un grande arrampicatore di cinquant’anni fa nelle condizioni attuali probabilmente sarebbe allo stesso livello di un grande arrampicatore di oggi. Ma sotto tanti aspetti sarebbero diversi, soprattutto di testa.”
Già, prendiamo ancora ad esempio il rischio in parete: anche oggi ci sono rischi elevati, ma non sono paragonabili a quelli di decenni fa, considerando tutti gli aspetti, dall’attrezzatura all’abbigliamento, dall’allenamento alle informazioni in tempo reale.
“E cosa ne pensi di come gli scalatori di un tempo hanno chiodato le vie e del loro modo di arrampicare?”.
“Penso che nessuno dovrebbe mai giudicare quello che hanno fatto gli altri. Nel passato ci sono state tante correnti di pensiero (che continuano anche oggi): io non ne prediligo o critico alcuna. Ognuno ha aperto vie e scalato a modo proprio con le sue ragioni. E io lo faccio a modo mio. Quello che invece reputo essenziale è il rispetto: verso gli altri e soprattutto verso la montagna. Appoggio i tanti chiodatori, passati e presenti, che hanno protetto abbondantemente molte vie per permettere anche ai principianti di avvicinarsi a questo mondo, ma sinceramente non comprendo la volontà da parte di alcuni di mitragliare le pareti di spit e chiodi, spesso senza neanche una logica. Guarda il Baffelan, ad esempio, ci sono talmente tante vie che rischi a volte di confonderti. Così sono pareti martoriate, non chiodate. Ma questo è il mio pensiero.”
Parliamo poi dell’arrampicata e della vita, e lui mi racconta di non essere quello scalatore incallito che si dedica interamente all’arrampicata, anzi.
“Spesso ci si confonde tra amare l’arrampicata e amare la montagna. Io amo la montagna, perché lì ci vado anche se non arrampico, quando, come e con chi voglio.”
Oggi il Noce ha una compagna e una bambina alle quali rivolge maggiormente le sue attenzioni e gli si legge negli occhi quanto sono importanti nella sua vita.
“Vedi, non c’è solo l’arrampicata. Se avessi dedicato tutto a questa passione, non avrei quello che ho adesso e probabilmente non sarei così felice.”

Ci stiamo per avvicinare al parcheggio, quando un gruppo di mucche rompe la recinzione e inizia a correre lungo la nostra strada. Decidiamo di scendere una scorciatoia tagliando il tornante.

Gli confido che amo moltissimo l’arrampicata, ma che ho anche paura di dedicarle troppo, perché se poi dovessi smettere di arrampicare per qualche motivo, rischierei di trovarmi senza più nulla.
“Non devi rinunciare a qualcosa per paura di non fare o avere altro”, mi dice guardandomi negli occhi, “tu sai cosa vuoi e cosa fare: scegli, fallo e basta”. È una frase che lascia molte interpretazioni nella mia vita e deciderò quale scegliere dopo averci vissuto un po’ su.
“Oggi siamo abituati a guardare solo il futuro, ma dovremmo anche voltarci ad osservare il passato, quello che ci portiamo alle spalle, i nostri comportamenti e quelli dei grandi alpinisti che hanno fatto la storia, ma anche i nostri errori, le nostre mancanze. Io non mi pento delle scelte che ho fatto, né dei momenti che ho vissuto e di quelli che ho perso. Ho deciso di fare quelle esperienze e di vivere così, perché stavo bene. Il passato insegna, ci serve per rispondere a domande, per farci capire che di errori ne abbiamo commessi tutti e che davanti a certe situazioni è meglio stare con i piedi per terra”.
“Be’, a volte il passato pesa, quindi per alleggerirsi basta non guardarsi indietro, giusto?”
“Eh no, cara Martina, troppo facile. Troppo facile.”
Una opinione su "Il Noce e i tempi dell’alpinismo che cambiano"